Fare epoca: il 2018 nella storia

La solitudine della boa nell’ondeggiare sinuoso del mare ed il fugace incontro tra felicità e tristezza al sopraggiungere di un certo qualcuno che non sosta ma saluta. E riparte.
La seduzione e l’abbandono.
Una prosa che è quasi poetica barocca: l’arrivo dell’ottava settimana della regular season dell’NFL scatena il contrasto emotivo.
Un po’ come le vacanze scolastiche nel periodo estivo, quel contare i giorni che parte lento, accelera bruscamente, e in un batter d’occhio riporta a settembre. I tempi migliori.

Il 2018 come il 1984, date che forse faranno il paio nella storia del football moderno, della Super Bowl Era, suggestioni e sovrapponimenti di eventi, comuni criticità, l’obiettivo comune – venga perdonato il richiamo- di far tornare grande la NFL.

Anno simbolo, fortemente caratteristico, l’OttantaQuattro fu il punto più basso toccato dalla Lega: stadi vuoti, rating televisivi striscianti, regole superflue, la USFL e Donald Trump.
Per filo e per segno, sarebbe tutto troppo lungo.
Riduciamo tutto ai minimi termini, sintetizzando.
Il regolamento divenne più stringente, venne introdotta la Mark Gastineau Rule – una boiata pazzesca tradotta con condotta antisportiva – per ovviare allo spettacolo concesso dal defensive end dei Jets che ballava dopo ogni sack. Televisivamente il tutto perdeva appeal, i seggiolini vuoti negli stadi erano in aumento, i Colts fuggirono da Baltimora e trovarono casa ad Indianapolis, i Jets lasciarono lo stadio di New York per le paludi del Jersey, quelle meadowlands cantate da Springsteen.

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“Now my home’s here in these meadowlands where mosquitoes grow big as airplanes
Here where the blood is spilled, the arena’s filled, and giants played their games”

Wrecking Ball, dall’album omonimo: il Boss – alla fine – è sempre, o quasi, la soluzione.

 

usfl

Il 1984, anno simbolo e suggestivo, lo spirito pop ad infiammare le masse, il consumismo come religione laica accettata e praticata, MTV a cambiare il volto di generazioni, il capolavoro di George Orwell sullo sfondo: Orthodoxy means not thinking — not needing to think. Orthodoxy is unconsciousness, l’ortodossia è non pensare – non aver bisogno di farlo. L’ortodossia è l’inconsapevolezza.
Pagine da scrivere, volendo.
L’arrivo di Trump, da un decennio in affari, l’USFL lega di football alternativa che giocava in primavera e voleva essere un competitor della NFL, il fallimento sportivo della deregolamentazione finanziaria, una grottesca battaglia legale, qualche spicciolo.

La musica insegna, ai Boys Of Summer di Don Henley si contrappongono i Boys of Fall di Kenny Chesney: in primavera non c’è spazio per nessuno, fatta salva la natura.

1984, come una moneta, due facce per una rivoluzione: tumulti emotivi ormonali di una generazione in cerca di consapevolezza che rifiutava le tradizioni consolidate cercando l’originalità, anticonformismo standardizzato e sacrificato all’altare del marketing, l’America muscolare dei film di Stallone e Schwarzenegger, eroi macchiati ma senza paura, underdogs figli di una spasmodica ricerca di successo e rivalsa.
Sportivamente, nonostante i freni, il film trasmesso era eccellente, sebbene ci vollero anni perché venisse apprezzato.
Ma nessuna moto rivoluzionario è stato compreso nello stesso momento in cui è stato celebrato.

Dan Marino – simbolico quarterback dei Miami Dolphins, eroe per la città al pari di Don Johnson pomatato protagonista della stereotipata serie poliziesca- Eric Dickerson – running back dei Rams – Mark Gastineau, di cui qualcosa è già stato accennato, leader della New York Sack Exchange, la difesa dei Jets. Uomini e atleti da copertina per quella stagione storica, i loro nomi impressi sulle varie milestones, pietre miliari: maggior numero di yards e touchdowns lanciati, all time record di yards corse, 22 sacks difensivi.
Senza dimenticare i Faithful 49ers, eroi di quella California sempre sognata e desiderata, all’apice della loro leggenda.

Il 1984 è stato tutto, o meglio, è stato l’anno che ha salvato il football.

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Un salto all’indietro per capire il presente, la storia che scorre mai invano e lascia il segno perché il futuro possa trovare terreno fertile alla sua realizzazione.
Otto settimane del 2018 e ci sembra di aver già visto di tutto: un sovrapponimento quasi studiato ad arte, un ricorso storico da far emozionare, un throwback moment lunghissimo a riportarci allo splendore di un’era passata.
Evoluzione digitale, immediatezza tecnologica, la sostituzione di MTV con Instagram, l’ebollizione di una generazione forse più povera ma comunque ricca di sogni, un nome altisonante ricorrente, la contrapposizione tra il bianco ed il nero, la luce dei riflettori e l’oscurità delle periferie.

Un quarterback a farla statisticamente da padrone desideroso di imprimere nella pietra il proprio nome, i Rams – tornati da poco a Los Angeles– dominatori di una stagione che rischia di essere perfetta con un running back – guarda te, il caso- a solcare il gridiron e illuminare la redzone, mostri difensivi con contratti milionari idolatrati tanto quanto i beniamini dell’attacco.

Drew Brees, Todd Gurley, Kahlil Mack: nomi altisonanti di una stagione nata per imbastire il comeback, la rimonta, del football nel cuore degli americani.
I ratings televisivi, positivi dopo stagioni incerte, regole ad incentivare l’attacco e la spettacolarità – helmet rule, insaprimento delle penalità per roughing the passer – esplosione di fenomeni inattesi per quanto giovani e angelici possano sembrare.
E’ il caso di Patrick Mahomes, quarterback al secondo anno di Kansas City idolo del Chiefs Kingdom, la base irriducibile dei giallorossi, intento a sgretolare record su record, testa bassa ad inseguire un sogno, a far credere all’impossibile.

Drew Brees Saints Panthers

E’un 2018 fantastico, fino ad ora, ricco di storie emozionanti che non potranno non essere ricordate.

La favolistica vita di Shaquem Griffin, struggente e magica l’avventura che l’ha portato ai Seahawks: una deformazione congenita ad un arto – la mano- che se non è tutto, nel football è comunque indispensabile, le porte non sempre aperte, i dubbi e la volontà di restare a tutti i costi con il fratello Shaquill, l’Università Central Florida, lo stupore dei vari scout alla combine, l’approdo a Seattle, ancora insieme a Shaquill.

Il pathos del cammino di Adam Thielen, ricevitore dei Minnesota Vikings, non un predestinato ma uno che ci ha creduto fortemente, testardamente. Un potenziale che pochi vedevano, forse nessuno se non lui, gettato nella mischia e destinato ad emergere, a ripagare gli sforzi di un inseguimento durato anni, pagato di tasca propria, senza aiuti esterni a mitigare la pena. Otto partite, oltre 100 yards corse a match: come lui nessuno mai.

La redenzione – o il tentativo di- per Josh Gordon, quel wide receiver scelto in un draft supplementare – momento dedicato a quei giocatori talentuosi ma problematici – che ha avuto più occasioni per veder giocare che di giocare. Uno che a dodici anni usava lo xanax per scacciare i mostri. I Browns come una famiglia, la migrazione nella dinastia dei Patriots agli ordini di quelli che la storia, forse, ricorderà come i più grandi: Brady e Belichick. Ultima opportunità.

Eroi, simboli, momenti di confronto – molto più di scontro- il tentativo politico di utilizzare lo sport come cavallo di Troia, Kaepernick e Trump. Due facce della stessa America, in perenne scontro, razzismo manifesto e razzismo supposto, l’economia che vola e la disoccupazione tecnicamente azzerata, le elites in supporto – strategico- ai più deboli, la pancia degli USA a supporto del venditore di sogni. Il 1984 è meno lontano di quanto possa sembrare.

Due mesi, poco più, e saremo nella stagione numero 100 di cui è già stato svelato il logo. Celebrazioni assicurate, il lento passo della XFL di Vince McMahon a smuovere sicurezze granitiche della Lega sportiva più famosa del mondo: non ci sarà spazio per rivoluzioni ma il fallout è garantito.

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Otto settimane di questa stagione 2018, il giro di boa che apre una breccia malinconica nel cuore dell’appassionato, la sensazione di essere spettatori di qualcosa che, comunque, sarà storia.

La NFL non è mai stata così bella. E’per questo che non vorremmo i titoli di coda.

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