Il libro di Peyton Manning: una scelta che insegna

Al taglio da parte dei Colts segue una condizione davvero strana per uno come Peyton Manning: quella di giocatore disoccupato. Nello sport professionistico si chiama “free agent”, ma poco cambia: a 35 anni uno dei più venerati sportivi del pianeta è un disoccupato, per di più infortunato, forse addirittura finito.

Le sei settimane che vanno dal febbraio 2012 a circa metà del marzo seguente vedono Manning allenarsi a Duke con il suo amico ed ex allenatore a Tennessee David Cutcliffe, head coach dei Blue Devils. È dal dicembre 2011 che c’è possibilismo sulle condizioni fisiche del 4 volte MVP, cioè da quando Joseph Addai, runningback, aveva assicurato: “Peyton mi sembra pronto per giocare la domenica” in seguito a un allenamento condiviso dai due.
Detto questo, è facile ipotizzare che quelle sei settimane in Carolina servano anche a stabilire se e come Manning possa tornare a giocare da titolare in NFL.

Però in molti, forse tutti, ci credono. Si parla della nuova squadra di Peyton Manning da molto prima che Jim Irsay faccia piazza pulita a Indianapolis. Per dirla tutta, a pochi sembra importare che Eli batta per la seconda volta Tom Brady al Super Bowl il 5 febbraio del 2012. Tutti pensano a Peyton: dove giocherà il numero 18?

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Seattle Seahawks

Appena Irsay licenzia il quarterback, suona il telefono di Manning, come è abbastanza prevedibile. Dall’altra parte ci sono i Seahawks, che vivacchiano nella NFC West, di gran lunga la peggiore division della lega. Pete Carroll, che da due anni guida gli ‘Hawks, invita Peyton a fare un giro a nord-ovest.
L’amore per la privacy di Manning ci vieta di sapere cosa i due si siano detti, le ipotesi per cui il 18 non vada nemmeno a Seattle a parlare sono principalmente due: il tempo (piove sempre, lui è abituato a giocare al coperto) e le conoscenze (Peyton non conosce nessuno nello staff di Seattle – ipotesi parzialmente confutata da Carl Smith, coach dei quarterback a New Orleans con Jim Mora).
I Seahawks non si disperano: al draft prendono un ragazzino che ha frequentato il QB camp di Peyton e che lo vede come grande fonte di ispirazione, Russell Wilson. Si fanno mandare Marshawn Lynch da Buffalo e scelgono Bruce Irvin e Bobby Wagner. Vinceranno il Super Bowl nel 2013 e lo sfioreranno nel 2014 Saranno una dinastia.

Hai ispirato il ragazzo con la maglia verde. Mi hai ispirato a lavorare duro. A essere disciplinato. A portare rispetto. A prendere appunti. Mi hai ispirato ad amare il processo. Ad amare il sudore. Ad amare le lacrime. Russell Wilson - 2016
Hai ispirato il ragazzo con la maglia verde.
Mi hai ispirato a lavorare duro. A essere disciplinato. A portare rispetto. A prendere appunti.
Mi hai ispirato ad amare il processo. Ad amare il sudore. Ad amare le lacrime.
Russell Wilson – 2016

Miami Dolphins

Quel telefono trilla sull’aereo privato che il giocatore sta utilizzando per andare in Florida. Ecco, a Miami non ti puoi muovere senza che qualcuno non lo sappia. Figuriamoci se sei andato 11 volte al Pro Bowl. Quando Peyton atterra in un aeroporto privato, tutti sanno già che è lì e si presentano.
“No so dove giocherò, è tutto così nuovo per me” commenta lui a colloquio con i media nel parcheggio. Sopra la sua testa gira un elicottero che lo riprende anche mentre scende dall’aeromobile.
Nella settimana successiva c’è qualche colloquio telefonico con Joe Philbin, nuovo allenatore dei Dolphins in arrivo da Green Bay, ma nessuna visita. Manning semplicemente si trova a Miami in vacanza, nulla di più banale.
I Dolphins sono, come spesso, allo sfascio. Ad aprile 2012 draftano Ryan Tannehill, un ex ricevitore convertito a quarterback prodotto di Texas A&M, e Lamar Miller come runningback ma l’esperimento Philbin dura poco più di tre deludenti stagioni prima che Joe vada proprio ai Colts come coordinatore (il Mondo è piccolo, la NFL minuscola). Lo rimpiazzerà Adam Gase, che in altri capitoli tornerà più volte in gioco.
Quindi niente Florida per Peyton: troppo debole la linea offensiva, troppo indecisa la proprietà, ma soprattutto troppo clamore. Il 18 non è altro che un ragazzone del sud che non ama l’ovvio polverone che solleva un personaggio del suo calibro in una realtà come quella di South Beach.

Arizona Cardinals

In quel marzo Manning decide che si deve sbrigare. Non gli piacciono le telenovele, soprattutto quelle con egli stesso come epicentro. Se il 7 marzo viene tagliato dai Colts e il giorno stesso viene accostato a Seahawks e Dolphins, il fine settimana successivo punta il far west. Prima tappa Denver, seconda Phoenix.
Qui incontra Ken Whisenhunt, ex offensive coordinator di Pittsburgh e head coach dei Cardinals, che sta vivendo sugli allori di aver raggiunto per la prima volta nella storia della franchigia il Super Bowl. Whisenhunt e Manning si stimano e si sono frequentati dopo un Pro Bowl in occasione del quale si erano conosciuti. Tanto che Manning arriva in zona la sera prima della visita all’impianto di allenamento dei Cards: va a cena da Ken e a tavola c’è anche Larry Fitzgerald, il leggendario ricevitore di Arizona che ha posticipato la partenza per le vacanze per salutare Peyton e cercare di convincerlo in qualche modo.
Ma colui che tiene di più ad avere una parola di conforto dal numero 18 è proprio Whiz: si è tirato in casa Kevin Kolb, quarterback perennemente infortunato, mandando a Philadelphia un piccolo tesoretto, e cinque giorni dopo deve decidere se confermarlo e spendere 7 milioni di dollari oppure se silurarlo risparmiandoli.
Nonostante lui e Manning si trovino bene e il giorno successivo (domenica) la visita all’impianto sia onnicomprensiva – ben sette ore di filmati, incontri con altri giocatori, studio del roster dei Cardinals, valutazione del salary cap – non basta a convincere il quarterback.
Se Kolb è sempre infortunato una ragione c’è: la linea offensiva di Arizona è la peggiore in NFL.

Tennessee Titans

Bud Adams ha 88 anni. L’anziano proprietario dei Tennessee Titans vede in Peyton l’ultima possibilità di ridare, in vita, splendore alla sua franchigia, stabilmente relegata nella mediocrità delle classifiche. E non si può chiedere al vecchio Bud, tornato bambino, di mantenere il segreto: “Peyton viene a trovarci”, dichiarazione che rende la visita del 18 allo stato che l’ha reso grande giocatore di college di dominio pubblico.
Il 15 marzo il 4 volte MVP arriva con un SUV nero, addosso una bella camicia arancione come la casacca dei Volunteers. La cronaca di quella giornata è alquanto dettagliata: le ore di visita medica (quasi due), le rotte e gli orari dei voli privati per andarlo a prendere a Duke e portarlo a Nashville, gli argmoneti trattati. Per i supporter dei Titans è una giornata storica: orde di tifosi arrivano per tutta la giornata, si accalcano sulle recinzioni del centro sportivo intonando cori e vestende anche loro in arancione.
È stato Adams a chieder loro di passare; si illude che il cuore di Peyton sia più condizionabile rispetto a presentargli un progetto tecnico credibile. Ma il simbolo più potente di quel 15 marzo 2012 è una telefonata: mentre Manning è seduto a parlare con il COO Mike Reinfeldt, l’head coach Mike Munchak e il GM Ruston Webster, probabilmente di come investire i soldi del salary cap per prendere un altro paio di uomini di linea offensiva, suona il telefono. Reinfeldt non risponde nemmeno, passa l’apparecchio a Peyton: “Chi è?”.

“Ciao Peyton, sono Bill Haslam, il governatore del Tennesse. Chiamo per dirti che spero vivamente tu voglia prendere in considerazione la possibilità di tornare a giocare nel nostro stato!”

Bill Haslam e Peyton Manning a colloquio durante un evento di beneficenza.
Bill Haslam e Peyton Manning a colloquio durante un evento di beneficenza.

Il Manning mediatico, quello sotto i riflettori delle cronache e non del campo, non avrà mai più un momento di così alta esposizione. Chi altri potrebbe mai sperare che un governatore si scomodi a chiamarlo per convincerlo a giocare per la sua squadra del cuore? La vera potenza di Peyton Manning è questa: essere un nome trasversale a tutte le varie classi sociali americane.
Haslam o no, c’è ben poco da sperare: quel dito pollice alzato ai tifosi del Tennessee, gesto banale che fa sognare un intero stato, non vuol dire nulla che non sia l’affetto per quel luogo. Il 19 marzo 2012 Peyton si alza, fa colazione e chiama John Elway, l’uomo che vinse un Super Bowl alla sua ultima partita da professionista.

Denver Broncos

“Sono grato a tutti coloro che mi hanno dedicato del tempo in questo periodo. Semplicemente penso che i Broncos siano la squadra più adatta. […] Parlare di football con John e coach Fox mi ha fatto capire che questo è il posto in cui devo stare. […] ”

C’è un problema però. Il 18 è ritirato a Denver. Frank Tripucka è il titolare di questo onore: è stato il primo quarterback dei Broncos della storia, ma non potrebbe essere più diverso da Manning. Tripucka infatti, quando arrivò a Denver si era già ritirato e doveva fare l’assistente allenatore. Era il 1960, e le rose erano leggermente ridimensionate rispetto a quelle odierne: non c’era un quarterback. Tripucka accettò di giocare per la franchigia appena nata, lo fece per quattro stagioni e segnò il primo TD nella storia della American Football League.
Il 9 marzo 2012 dichiara che se i Broncos avessero firmato Manning, lui gli avrebbe lasciato indossare il 18, ma Peyton lo chiama lo stesso la mattina del 20. Il problema si rivela di ben poca entità: Tripucka è più che felice di vedere Peyton in maglia arancio. Morirà l’anno successivo.

Le ragioni per cui Manning scelga Denver non hanno origine tecnica e assolutamente nessuna ragione economica. Nelle sue parole c’è tutta la motivazione. Si trova bene, soprattutto con le persone, i nuovi datori di lavoro. Aiuta la dimensione di Denver, città piccola al confronto con altre. Aiuta la division “morbida”, aiuta un livello di talento medio dei compagni, senza alti ma con pochissimi bassi. Ma la scelta riguarda unicamente le persone. Nient’altro.

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E si vede quando, a settembre, c’è da giocare. Contro gli Steelers Peyton lancia uno screen per il ricevitore Demaryius Thomas, che si invola per 80 yard protetto dai campioni della linea, salita al “secondo livello”. La reazione di Manning è potente, quasi isterica, felicissima, totalmente sproporzionata allo sforzo, quasi nullo, che ha dovuto fare con il braccio. Sa di essere nel posto giusto. Quel debutto casalingo contro Pittsburgh viene sigillato da un pick-6 di Tracy Porter, che forse ricorderete per essere colui che intercettò Peyton a Miami quando i Colts si arresero ai Saints al Super Bowl.

Seahawks, Dolphins, Cardinals, Titans, dei serissimi 49ers e altre sei franchigie hanno tentato di firmare Peyton Manning. Lui ha scelto velocemente, ma non di fretta. Ha pensato invece di agire. In dieci giorni ha cambiato il destino di tutte queste squadre, con un no o con un sì. Sempre nel rispetto dei contendenti, sempre interessato più alle persone che aveva intorno piuttosto alla gloria personale.
Sembra così evidente oggi che sappiamo come è andata a finire, ma quel marzo del 2012 ci ha solamente dimostrato che basare una scelta sul bene degli altri e su ciò che con noi condividono ha molto a che fare con la nostra realizzazione.

Tale realizzazione, e tutti i problemi per raggiungerla, quando torneremo a scrivere del quarterback dei Denver Broncos.

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Dario Michielini

Segue il football dagli anni 90, da quando era alle elementari. Poi ne ha scritto e parlato su molti mezzi. Non lo direste mai! "La vita è la brutta copia di una bella partita di football"

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