Il libro di Peyton Manning: 2015, ultimo atto

Del 2015 esistono una miriade di immagini che l’irriconoscibile Peyton Manning porta alla mente di tutti coloro che l’hanno visto illuminare per vent’anni il mondo del football. E in queste, la parola “instabilità” è il filo che le collega e ci guida alla scoperta di ciò che è successo.

In pratica, i suoi Broncos vincono. Tanto, forse troppo. E fin qui nulla di strano, come abbiamo visto la regular season è il banale territorio di conquista per Peyton. Il fatto è che a vincerla non è proprio più lui: sono DeMarcus Ware, Aqib Talib, Von Miller. Dopo la quarta settimana, in cui Denver batte Minnesota, il coro è unanime: “I Broncos sono una difesa incredibile, che vince le partite da sola e l’attacco va a rimorchio.”
In effetti, solo il 25% dei terzi down giocati contro Denver va a buon fine, e per yard concesse a quel punto della stagione ci sono solo due squadre che rivaleggiano il reparto di Wade Phillips, coordinatore giunto a Mile High City durante l’estate: Tennessee e New England. Peccato siano le uniche ad aver già effettuato il bye stagionale!

Guardando, analizzando e cercando di capire l’impegno contro i Vikings, si comprende quanto il modus operandi del campione da New Orleans scricchioli sotto il peso di quei nervi ridotti così male e altri infortuni che poi menzioneremo.

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Primo quarto: finta di passaggio corto, cornerback che abbocca, C.J. Anderson libero come poche volte. Palla corta che il runningback, spostato proprio da Manning in posizione decentrata, è bravo a raccogliere e trasformare in un primo down. Dodici mesi prima sarebbe stato forse touchdown. Dieci anni prima togliete il forse.
Secondo quarto: Minnesota gioca una cover-4 (sotto, a sinistra); Peyton la scambia per una cover-2 (a destra), ragion per cui il suo ricevitore corre incontro al linebacker (Anthony Barr) che lo sta aspettando. A quel punto, al posto che colpire il ricevitore interno, che ha molto spazio in confronto al cornerback, il numero 18 cerca comunque l’esterno, con Barr ben felice di intercettare.

Vikings Broncos cover-3 cover-4

Durante la vittoria contro i Vikes, Manning lancia un altro intercetto. Stessa traccia sopra descritta, 10 yard più profonda. Appena Demariyus Thomas (esterno) gira l’angolo è libero, ma il suo QB non riesce a recapitargli la palla, che finisce alta oltre i linebacker, ben lontana da Thomas ma tra le mani di Harrison Smith, safety di Minnesota.
Errori mentali, errori tattici, errori tecnici, condizione fisica ormai disperata. Così via per tutta la stagione.

“Dove una volta guardavamo un chirurgo, stiamo ora guardando un fabbro che invecchia, che spera di forgiare un ultimo capolavoro basandosi sulla sua memoria muscolare e sull’astuzia”
John Gorman su SportsIllustrated nell’eloquente “I Broncos continuano a vincere nonostante il continuo declino di Peyton Manning”, scritto dopo la sesta settimana di gioco

I Broncos sono però inarrestabili, sono una squadra inarrestabile. Dominano ovunque vadano, soprattutto in casa dove distruggono nell’ottava settimana i Green Bay Packers, di gran lunga tra le prime due squadre della NFC. Un 29-10 figlio di una prova difensiva da annoverare tra le prime due o tre nella storia dello sport. Aaron Rodgers è lasciato a 70 yard.
Peyton invece lancia per 300, senza segnature ma con un intercetto. “Avrà giocato decentemente per il bye della settimana prima”, dicono, smaltendo così la prima prova sufficiente del numero 18 nel 2015.

Contro Indianapolis, la sua Indianapolis, Peyton ha l’occasione di siglare in una volta sola due dei più grandi record NFL: quello per yard lanciate e quelle per più vittorie da titolare. Il primo tempo è orribile, ma il secondo è da antologia. I Broncos sembrano i Colts, ma di dieci anni prima. Manning trova tutti, da tutte le parti. Ogni drive è una segnatura, quindi quando i Colts del 2015 vanno avanti di un touchdown, sappiamo che il pareggio arriverà facilmente.
Ecco, qui il copione del 2015 subisce una di quelle virate che definire storiche è riduttivo.
A 7 yard dal record ogni tempo per yard lanciate, Darius Butler intercetta un brutto passaggio del 18, comunque destinato al terreno. Una giocata che ferma un record e l’altro, perché la difesa di Denver commette due penalità stupide e Indy tiene palla fino alla fine, trionfando.

La settimana successiva le 7 yard arrivano, ma dopo gli applausi ricevuti per la pietra miliare appena raggiunta Peyton spara tre intercetti orribili nelle mani dei difensori di Kansas City nel solo primo quarto, compila un bel rating di 0.0 e si siede in panchina: inizia la reale carriera di Brock Osweiler dopo tre anni di panchina.
Archie Mannning spiega ai media che il suo figlio mezzano ha avuto problemi di fascite plantare e alla schiena sin dall’estate. Il tutore sul piede di Peyton sembra avvalorare questa osservazione del famoso genitore.

Quello che succede dal 15 novembre 2015 al 3 gennaio 2016 è uno dei ritorni al football più sofferti di sempre. Osweiler sul campo ha fortune alterne: probabilmente è meglio di quanto ci si aspettasse, ma crolla due volte in modo fragoroso. La prima è contro gli Oakland Raiders, forza nascente all’interno di una finalmente competitiva AFC West. I californiani sackano il nuovo QB dei Broncos un numero talmente alto di volte che nel secondo tempo Denver non segnerà nemmeno un punto. La seconda è la settimana successiva contro gli Steelers, che nella seconda metà di gara mettono la quinta, rimontano uno svantaggio in doppia cifra e stravincono. Osweiler è un buon quarterback, ma nei secondi tempi implode in modo disastroso, minando quella credibilità che serve quando guidi una squadra ai Playoff.
Nel frattempo Peyton torna ad allenarsi. I retroscena ce li svela Gary Kubiak, ultimo suo allenatore, durante la conferenza stampa di ritiro del numero 18.
Il coach ricorderà sempre il cenno d’intesa del 39enne durante uno degli ultimi allenamenti della sua carriera: è pronto per tornare in campo qualora i Broncos ne abbiano bisogno.

Dopo la quindicesima settimana di gioco gli arancioblù non sono nemmeno sicuri di un posto ai Playoff. Con Brock al timone riescono a battere i Bengals (che si battono da soli molto volentieri come storia insegna), mentre New England perde con Miami all’ultima partita. Il risultato è che, con una vittoria su San Diego, i Broncos sarebbero la numero 1 della AFC. Un vantaggio vitale per sperare nel Super Bowl.
Quando Kubiak vede che i suoi sono sulle ginocchia, ributta in campo il vecchio Peyton. Sa bene che di uno dei più grandi campioni della storia è rimasto ben poco, ma sa altrettanto bene che alcune cose nello sport non si possono misurare con le sole performance. Appena il 18 entra in campo, la partita cambia; il bello è che Manning non lancia un solo passaggio, deve solo cederla a C.J. Anderson e Ronnie Hilman, i suoi runningback. Basta quello, i Chargers escono battuti e i Broncos sono la numero 1 della loro conference.

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manning osweiler broncos

Ci sono molte statistiche a sfavore dello schierare Peyton al posto di Osweiler. Ma Kubiak tira dritto per la sua strada, per il turno di Divisional contro gli Steelers ci sarà il primo a guidare l’attacco. Sa che nessun quarterback sarà parte cruciale della vittoria, meglio quindi far giocare chi ispira più fiducia nei compagni.
Pittsburgh non ha Antonio Brown, ricevitore, e Le’Veon Bell, runningback. Segnerà unicamente nel primo quarto, con una corsa di Fitzgerald Touissant, sconosciuto rincalzo di Bell. Denver non riesce nemmeno in quello: Peyton sotterra qualsiasi pallone che non sia sicuro al 100% di completare, finirà con 21/37 per 222 yard e nessun intercetto. Sta maturando ulteriormente.
Nel quarto periodo Touissant perde un pallone e i Broncos lo ricoprono. Manning completa un passaggio da 31 yard, il migliore della sua partita, e poi C.J. Anderson passeggia in End Zone per mandare i suoi al Championship dove, indovinate un po’, li aspettano proprio i New England Patriots.
Il 18 esce dal campo e dice:

“Come per tutta la stagione, la difesa ci ha fatti vincere!”

Ripeterà questa filastrocca per tutto il resto della Post Season. Come al solito, non nasconde la verità: l’attacco dei Broncos è un peso, l’unica cosa buona che riesce a fare è preparare una buona zona per facilitare il lavoro di Anderson mentre la partita progredisce.

La settimana successiva si è un po’ tutti convinti che finirà lì: troppo forti i Patriots, solita sorgente di risorse inaspettate, solita applicazione maniacale di un Tom Brady in salute e troppa differenza nelle ultime prestazioni. Al posto che giocare solo l’ultimo, Peyton gioca unicamente il primo quarto stavolta. Completa due passaggi da touchdown che vanno definiti come “vintage Manning”, un Manning d’annata, quello forte, quello che in realtà non esiste più. È una specie di miracolo, e sarà l’ultima traccia di uno dei migliori passatori del mondo del football.
L’amico/nemico Tom non si dà per vinto. È una partita strana, lui non ha nessun aiuto dalla sua linea, Steven Gostkowski, infallibile kicker, sbaglia un punto addizionale, Von Miller lo intercetta nell’unica occasione in cui non lo pressa. Nel terzo quarto la sua nemesi si esibisce in una corsa da 12 yard con tuffo finale di testa in avanti, cosa successa solo nel 1998, la stagione da rookie. Probabilmente Tom crede di trovarsi in una candid camera.
Manning lancia un passaggio terribile nel quarto periodo, che avrebbe potuto chiudere la contesa, lasciando uno spiraglio al dirimpettaio. Sul 20-12 Brady deve marciare sul campo, segnare il touchdown e convertire da due punti. Ha tre drive per riuscirci, perché l’attacco di Denver è completamente inesistente e lascia molto opportunità ai bostoniani. A un minuto dalla fine Brady trova Rob Gronkowski per 40 yard di guadagno su un quarto down: sembra l’inizio dell’ennesimo lieto fine per i Pats, mentre Peyton assiste visibilmente nervoso dalla sideline. Arriva il TD, ma non la conversione da due punti: il pallone di Tom è deviato in aria e cade nelle mani di un difensore in maglia arancio.

Lultima stretta di mano
L’ultima stretta di mano

È l’ultimo scampolo di football competitivo per Peyton Manning, l’ultima emozione vera, l’ultima paura. Le due settimane che precedono il Super Bowl numero 50 sono un rincorrersi di “Carolina è più forte”, “Cam Newton: che gran quarterback”, “Troppo completi i Panthers”. In realtà Wade Phillips e Gary Kubiak sanno già di aver vinto. Troppo facili i mismatch, troppo labile la linea offensiva di Carolina, troppo prevedibile la pressione che arriverà sul loro opaco quarterback quarantenne. Denver domina la partita dell’anno dal primo secondo all’ultimo, si torna a dire “…la difesa vince le partite” e per una volta Peyton è dalla parte giusta dell’equazione.
Si limita a recapitare la conversione da due punti che atterrisce le ultima speranze in neroazzurro, quella che fa cominciare la festa. 13/23, 141 yard, 56.6 di rating. Statistiche tutt’altro che manninghiane, ma vincenti.

Eli, Archie, Olivia, Cooper, sono tutti nel box della famiglia Manning sulle tribune, un box che sembra esserci a ogni Super Bowl da dieci anni a quella parte. Lui ride quando l’inviata gli fa la domanda fatidica e inevitabile:

“Avevo come la sensazione che mi avresti chiesto se ho intenzione di ritirarmi. Stasera bado solo a […] bere una buona quantità di Budweiser, poi ci penserò!”

Squillano tutti i telefoni della nota marca di birra, che manda 1200 bottiglie alla festa post-partita dei Broncos, visto che una menzione (non pagata) da parte di Peyton Manning vale 1, 6 milioni di dollari in sforzi di brand recognition.

Lontano dal campo, la voce del numero 18 riecheggerà per sempre. A esempio, nella primavera del 2016 va a cena con alcuni amici a Miami. Al tavolo – sono in una trentina – c’è anche Ryan Tannehill, quarterback titolare dei Dolphins. Parte la tiritera mediatica del tipo “Manning prende Tannehill sotto la sua ala” (anche su nfl.com). Ma in realtà è solo una cena.

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Sul cmanning pool broncosampo, il nome Peyton Manning non avrà bisogni di echi. A parlare non ci saranno i numeri, i record destinati a perire per loro stessa essenza. Ci sarà l’immagine di un professionista che si ascolta in diretta la sessione di allenamento nel casco, che cura la caviglia nell’acqua di reazione, e che nel frattempo legge anche il playbook.
Per l’esempio che è stato di dovizia, attenzione al dettaglio, innovazione, intelligenza tattica; per le sue scelte, che insegnano oltre la mera pratica sportiva; per l’affetto provato per uno sport che ha rappresentato in tutto e per tutto la sua intimità; per un tragitto fatto di delusioni, rivincite, adattamenti al progredire di una carriera non semplice. Per ognuna di queste ragioni, che non interessano il talento, rimarrà un termine di paragone per chiunque si cimenti nel ruolo di quarterback.

Sono questi i motivi per cui ci siamo sentiti sollevati nel vederlo alzare quell’ultimo trofeo nella notte di San Francisco. È stata l’ultima immagine del Peyton giocatore e nessun’altra avrebbe potuto chiudere il cerchio in modo più calzante. Fotogramma unico e irripetibile atto a ricordare, come inciso nella pietra, che i migliori risultati ci arrivano anche quando non ce li aspettiamo più, a patto di averci creduto fino alla fine delle forze.

denver broncos manning

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Dario Michielini

Segue il football dagli anni 90, da quando era alle elementari. Poi ne ha scritto e parlato su molti mezzi. Non lo direste mai! "La vita è la brutta copia di una bella partita di football"

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4 Commenti

  1. Bellissimo articolo e non poteva essere altrimenti visto il tema trattato. Io penso che nelle bacheche ci finiscano delle coppe vuote, ciò che realmente rimane dello sport sono gli atleti, quelli veri, gli uomini, le emozioni, le imprese sportive. Non è da molto tempo che seguo il football ma mi sta appassionando sempre più proprio per questo, perché è sport allo stato puro e possiede quell’aura magica che solo la NFL sa trasmettere, che solo giocatori come Peyton Manning sanno trasmettere. Sono tifoso Patriots ed è doloroso rileggere della sconfitta di quest’anno, ma quando questo Manning va a vincere il Super Bowl contro ogni pronostico e contro ogni legge della logica, beh, ti inchini e poi applaudi. Applaudi un uomo che ama questo sport, che ha lottato contro tutti e tutti, che ha superato infortuni e delusioni ma che ne è uscito vincitore, ritirandosi forse al momento giusto in mezzo all’amarezza generale e alla nostalgia. Forza New England, Brady è il mio QB, posso ripetermi queste cose fino alla nausea ma nel mio cuore ci sarà sempre un posticino anche per persone come Manning perché se lo merita tutto.

    1. Ciao Andrea, grazie di aver letto e commentato.

      Siamo molto avvantaggiati nell’essere da questa parte dell’oceano. Questo ci dà la lucidità per stare lontani da campanilismi e simili. Posto che anche in America il modello di tifo è molto più educato (almeno per quanto riguarda il professionismo), abbiamo senza dubbio il vantaggio di essere alla stessa distanza da Manning e da Brady (e Brees, e l’altro Manning, e Newton…) per poterli valutare senza una particolare maglia addosso.
      È una grande ricchezza e il motivo per cui ci siamo appassionati.

      1. Grazie a voi che siete una splendida finestra su questo bellissimo sport quasi sconosciuto dai media italiani.
        Come dici tu siamo avvantaggiati, è vero, diciamo che l’unica cosa che purtroppo non ci avvantaggia è il fuso orario, ma che ci vuoi fare…
        Sicuramente un tifoso Pats di Boston non farebbe mai i complimenti a Manning come glie li farei io, su questo non ho dubbi, però mi sono convinto che i tifosi NFL americani hanno una mentalità diversa da quella che c’è qui in Europa. Sono certo che in America non servono ingenti misure di sicurezza per i tifosi, non c’è quel fanatismo violento che va oltre l’evento sportivo e non serve che dica a quale sport mi sto riferendo specialmente qui in Italia… Poi magari sono io che ho le fette di salame sugli occhi,
        Mi sono innamorato dei Pats ma penso che ci siano 32 squadre nella lega e le partite belle meritano di essere viste, indipendentemente da chi gioca e da chi vince, poi sia chiaro che se Newton mi batte proprio i Pats al Super Bowl un po’ mi girano ma finisce lì, bisogna avere uno spirito sportivo altrimenti chiudiamo tutto e arrivederci.
        Contiamo i giorni per la prossima stagione. Buon football a tutti!

  2. Grazie per i bellissimi articoli, Manning è la persona con più classe che abbia mai giocato in Nfl, sotto tutti i profili.

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