Il libro di Peyton Manning: la partita che non si poteva vincere

Il Natale del 2005 non è un Natale come gli altri per Tony Dungy. Pochi giorni prima la fidanzata del figlio, il 18enne James, trova il cadavere del ragazzo nel suo dormitorio universitario. Padre di nove figli, Dungy si precipita in Florida, dove è avvenuto il suicidio; Bill Polian commenterà: “La squadra è del vice Jim Caldwell, Tony può tornare quando vuole.”

D’altra parte i Colts sono 13-1, sicuri del bye al primo turno di Playoff e fanno giocare Peyton Manning per un solo quarto di gioco nelle ultime due partite. Nella diciassettesima settimana, quando Dungy torna al lavoro, vincono sui Cardinals e dedicano la vittoria a James.
In Post Season Indy si piega a Pittsburgh a causa di un placcaggio storico di Ben Roethlisberger, QB degli Steelers, e a un altro calcio sbagliato da Mike Vanderjagt (che ricorderete fallire a metà contro i Buccaneers in quella mitologica partita del 2003 a Tampa Bay).
Peyton, come si dice in America, getta la sua linea offensiva “sotto il bus”, dicendo che contro Pittsburgh non ha avuto tempo di lanciare. Dungy tiene duro e 13 mesi dopo saranno entrambi campioni del Mondo insieme.

Ma Tony, cristiano evangelico, forse dalla tragica dipartita del figlio avvenuta 13 mesi prima coglie un segnale. Mentre alza il suo unico Vince Lombardi ha solo 52 anni, ma pensa già a quando smetterà di allenare.

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Credo di avere la responsabilità di stare un po’ più a casa, disponibile un po’ di più per la mia famiglia e fare qualcosa per aiutare a rendere migliore la nostra nazione.

Queste le parole dell’allenatore nel 2009, quando si ritira.

Dungy
Rimarrà nel mondo del football: analista televisivo e in vesti inconsuete di consulente psicologico. Infatti è esclusivamente merito suo se Michael Vick, una volta uscito di prigione, tornerà a essere un favoloso giocatore per i Philadelphia Eagles. Tra un’iniziativa caritatevole e un simposio per genitori, la vita di Dungy va avanti; il football era solo una tappa nella sua vita, non il fine ultimo.

Fatto sta che i Colts si trovano senza guida. Il comando passa a Jim Caldwell, buonissima mente offensiva senza alcuna esperienza da allenatore capo. Polian e Irsay sanno che uno bravo come Dungy non lo troveranno più, ma sanno anche che con uno come Peyton Manning come quarterback nulla sarà loro precluso.

E in un paradosso clamoroso, l’addio di Dungy sembra portare bene. I Colts vincono le prime 14 partite di regular season, firmando la migliore partenza nella storia della franchigia. Manning vince il secondo titolo di MVP consecutivo, portando il totale a 4, il doppio di chiunque altro nella storia della NFL.

Caldwell decide che nelle ultime due partite deve far riposare il numero 18. Arrivano altrettante sconfitte, con i Jets e i Bills. Prima di queste, Indy aveva trionfato in 23 scontri consecutivi di regular season. Si interrompe qualcosa, mentre Caldwell e il suo staff vengono fortemente criticati per aver fatto riposare i migliori giocatori. Il cornerback Kelvin Hayden confesserà: “No, non sapevamo che volesse toglierci tutti, ci ha colti di sorpresa”, riferendosi alla decisione di Caldwell contro i Jets.
Ma la vera minaccia ai sogni di titolo arriva dalla Louisiana. Nella NFC sono infatti i New Orleans Saints a fare terra bruciata intorno a sé: il 13-0 nelle prime tredici li candida come unici rivali di Manning e soci.

Quando i Baltimore Ravens demoliscono i Patriots, a Indy sanno che vivranno un altro Super Bowl da protagonisti; i Colts affrontano e battono abbastanza agevolmente sia i Ravens che i Jets e staccano il biglietto per Miami (ancora Miami). I Saints, nel frattempo, vincono uno storico – per mille ragioni – Championship contro i Minnesota Vikings di Brett Favre.
Sarà Manning contro Brees, attacco contro attacco, in un’edizione che promette quello spettacolo che la NFL stessa va cercando: caterve di punti, emozioni, grandi giocate. Per la città di New Orleans, sarà questo e molto di più.

La partita che non si può vincere

Nel 2005 l’uragano Katrina approda a NOLA e La devasta, muoiono 700 persone solo in quella città. Il terzo uragano più potente nella storia degli Stati Uniti d’America si lascia dietro, in tutto, circa 1800 vittime. La capitale del jazz è in ginocchio, tanto che il SuperDome, casa dei Saints, viene utilizzato come dormitorio e rifugio per gli sfollati nonostante i danni riportati.
Joe Horn, ricevitore, e Deuce McAllister raccontarono una scena che bene descrive l’amore dei cittadini della sfortunata municipalità per i suoi Saints:

Abbiamo visto un elicottero atterrare di fronte a noi, all’interno degli sfollati. Appena scesi, essi ci hanno riconosciuti, ci sono corsi incontro chiedendoci se avessimo visto contro Carolina il giorno prima!

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La guida tecnica di una New Orleans bramosa di rinascere è Sean Payton, uno che di attacco e aggressività se ne intende. Nel 2006 trova in Drew Brees il compagno ideale, e il duo coach-QB farà la storia di una franchigia mai, fino a quel 2010, approdata al Super Bowl.
La differenza la farà tutta lui nella sera di febbraio che vedrà Peyton cadere sotto i colpi della squadra che rappresenta il suo paese natale.

Con i Colts in vantaggio per 10 a 6, essi hanno il pallone entro le 5 yard. Hanno tutto il campo da fare e poco tempo prima dell’intervallo. La decisione di Jim Caldwell non è quella giusta: tre corse, consumare il cronometro e andare al riposo senza forzare o incappare in brutti errori. La reazione di Peyton è visibilmente contrariata.
A favore di Caldwell va detto che la palla, all’inizio del terzo quarto, ce l’avrebbero avuta proprio i Colts.

Oppure no?

In una mossa che entrerà immediatamente nella storia del Super Bowl, Sean Payton sorprende tutti e ordina l’onside kick. Velato, poco intuibile: è quanto basta per girare completamente la partita. A cavallo dell’intervallo del Super Bowl numero 44 Peyton Manning perde per la prima volta una finale. Il classico chiodo nella bara è l’intercetto che il 18 lancia tra le mani di Tracy Porter. Il defensive back lo ritorna in end zone in quello che è decisamente l’intercetto più celebre nella carriera di Manning.

Super Bowl Football manning intercetto
Il 31-17 finale incorona solo quattro anni dopo Katrina i Saints, una squadra più che romantica e più che amata. Quella sera sembra che Peyton Manning non possa togliere tale soddisfazione ai suoi concittadini. Sicuramente è un po’ colpa sua, certamente molta ne ha Caldwell per la gestione conservativa di una partita che andava vinta con più fiducia e coraggio.
Per lo spettatore casuale ma informato, invece, probabilmente è giusto così. Come può un figlio di New Orleans togliere una gioia tanto enorme ai suoi ancora disperati concittadini? A volte il football supera la tecnica, la tattica, lo sport, il valore delle squadre coinvolte. A volte il football divide, e quella sera Peyton è dalla parte sbagliata, quella destinata a soccombere.

Un nuovo doloroso capitolo

Il 22 ottobre 2006, nella partita contro i Washington Redskins al RCA Dome, Peyton Manning subisce quello che resterà il più spaventoso colpo della sua carriera. Due difensori degli ospiti infatti lo bloccano davanti e dietro, con uno dei due che gli frana sul casco, che viene via. Il collo e la schiena si piegano in modo molto più che innaturale, facendo venire i brividi a tutta l’arena. Lui si rialza, chiama il timeout perché può chiaramente fare ciò che vuole quando vuole, poi rientra in campo scuotendo la mano destra, intorpidita dal colpo subito.

Nel 2011 molti dicono che quello fu l’inizio della fine per il campione da Tennessee.
Pratica difficile quella di identificare un episodio come la partenza di una condizione fisica compromessa, e di certo non ci sbilanceremo nemmeno noi. Fatto sta che in quel 2011 i Playoff si concludono per i Colts quando un calcio sbagliato non permette loro di superare i Jets. I 670 passaggi tentati da Peyton rimarranno il massimo in carriera, e il suo sovrautilizzo determina una offseason addirittura storica. Quando la palla si ferma iniziano le voci, flusso cacofonico che si esaurirà solo 15 mesi dopo. Argomento principale? La salute di Peyton Manning.

Nel maggio del 2011 egli si sottopone al primo intervento al collo. Non sarà l’ultimo. Per allenarsi lontano da qualsiasi clamore va a occupare il quartier generale dei Colorado Rockies, squadra di baseball che già abbiamo conosciuto. Ci gioca con ottimi risultati Todd Helton, colui che era QB titolare a Tennessee quando Peyton arrivò a Nashville.
La sue parole (giunte anni dopo al pubblico), saranno perentorie:

Vedevo uno dei più grandi giocatori di football di sempre che non riusciva a lanciarmi la palla a dieci yard. Allora gli chiedevo se stesse scherzando e mi diceva che avrebbe tanto voluto farlo.

Quegli allenamenti a Denver sono utili per una cosa: rendersi conto che Peyton Manning non è più un quarterback. L’8 settembre subisce un ulteriore intervento, questa volta di fusione cervicale. Quello è il periodo in cui se ne dicono di più sul suo conto. Letteralmente da “torna settimana prossima” a “ha finito di giocare”. Nel frattempo salta la prima partita della carriera NFL. Salterà, dopo altre due operazioni, tutta la stagione 2011.

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Il Mondo si rende conto del perché questo giocatore avesse vinto 4 titoli di MVP. Senza di lui i Colts implodono: 2-14 in stagione, peggior record. Hanno nuovamente la prima scelta assoluta, e sulle condizioni di Peyton, del loro Peyton, di colui che ha partorito il grande football a Indianapolis, non c’è alcuna certezza. Da Stanford sta uscendo uno che alcuni dicono sia la copia carbone proprio di Manning; quelli che dissentono pensano sia più simile ad Aaron Rodgers. Insomma, Andrew Luck è il nuovo boom NFL, il nuovo franchise QB. Peyton è un 35enne che non si sa se giocherà mai più, e se lo farà non si sa come.

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Jim Irsay sa che è finita. Finita la più grande fase dei Colts. Caccia Bill Polian, caccia Jim Caldwell, caccia Peyton Manning. Il verbo “cacciare” è volutamente forte, volutamente sbagliato. Nella conferenza stampa in cui, insieme al suo numero 18, comunica che il contratto tra le due parti è stato rescisso, ci sono più lacrime che arrabbiature.

“Questa città e questa squadra significano molto per me. Lascio i Colts provando solamente gratitudine. Ho pensato a dove giocherò, ma ancora di più a dove ho giocato. Grazie tante, mi è piaciuto essere il vostro quarterback.”

Sembra quasi che Irsay abbia chiesto a Peyton che cosa dovesse fare. Lo dicono loro stessi: “Ci siamo confrontati”. Un proprietario e quello che in teoria non è nulla più di un suo giocatore parlano del futuro di una società. Questo, oltre al Super Bowl, è il singolo più grande risultato di Peyton Manning, quello di essere un riferimento a 360 gradi per tutti, dal presidente ai supporter.
Peyton lascia Indy togliendosi varie soddisfazioni: sovvenziona un’ala dell’ospedale pediatrico e gli dà il suo nome, passerà alla storia anche per aver sventolato la bandiera a scacchi alla 500 miglia. Ricordate? A Indianapolis non c’era altro che il basket e l’automobilismo. Dopo 14 stagioni di Peyton Manning c’è anche il football.

Fine? No, non preoccupatevi, ci sono altri due Super Bowl, altri innumerevoli record, altre decine e decine di vittorie. La rinascita sarà la protagonista del prossimo capitolo.

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Dario Michielini

Segue il football dagli anni 90, da quando era alle elementari. Poi ne ha scritto e parlato su molti mezzi. Non lo direste mai! "La vita è la brutta copia di una bella partita di football"

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