Cosa è stato per noi Peyton Manning

Oggi Peyton Manning compie 40 anni e sono passate quasi tre settimane dalla conferenza stampa nella quale ha annunciato il ritiro dal football giocato. Su Huddle Magazine lo abbiamo celebrato e lo stiamo ancora facendo raccontandovi la sua storia a puntate e per chiudere questo capitolo vi lasciamo con le testimonianze di alcuni nostri autori. Se volete aggiungere la vostra, lo spazio dei commenti è a disposizione.

Gabriele Balzarotti

Quando penso a Peyton Manning, il primo aggettivo che mi viene in mente per descriverlo è: umile.
Ho visto giocare Manning solo nell’ultima fase della sua leggendaria carriera, gli anni ai Denver Broncos, e fatico a ricordare un quarterback così incisivo in campo, ma anche così semplice nel suo modo di porsi. Mai una parola fuori posto, mai un atteggiamento sopra le righe, mai un problema fuori dal campo. Manning è stato un perfetto uomo immagine della NFL per quasi due decadi, nemesi perfetta del suo rivale ed amico più glamour: Tom Brady.

È stato difficile guardare questo ultimo anno di Manning. Intercetti come se piovesse, errori nelle letture, l’infortunio, la panchina, ma alla fine, come nella più bella delle storie, il lieto fine. In trionfo, sul palco di Santa Clara col Lombardi Trophy in mano, con quel sorriso un po’ malinconico che lo contraddistingue. Manning si è ritirato da vincente, nel modo più dolce che uno sportivo possa desiderare. Lascia alla NFL un’eredità straordinaria e merita un posto tra i più grandi di sempre.
Grazie di tutto Sceriffo.

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Alessio Salerio

Ho avuto un rapporto controverso con Peyton Manning, fin dall’inizio. Fin da quando ho scoperto, con un percorso inverso praticamente a qualsiasi altr essere vivente, che è il fratello di quell’Eli che mi stava avvicinando ad uno sport a me sconosciuto, durante il Super Bowl XLII. Tagliando corto su una vicenda famigliare che ha ben poco interesse tra due sportivi di questo livello, Peyton Manning resta una figura controversa nella mia testa di neofita appassionato di NFL. È il più forte quarterback di tutti i tempi. In regular season, però, a mio parere. Un’altra condizione che forse non dovrebbe far testo, ma che, nel suo caso, probabilmente fa la differenza.

Cinque titoli di MVP, otto volte miglior giocatore offensivo in AFC, quattordici chiamate al Pro Bowl, pagine e pagine di record che resteranno per lungo tempo la storia di questo sport. E poi quelle 27 partite di playoff, un record appena positivo, 87.4 di passer rating e 40 touchdown pass, ma con 25 intercetti. Un titolo da dominatore nel cuore della carriera, uno da guida spirituale all’ultimo assalto. Non può essere soltanto questione di vittorie, non può essere soltanto questioni di numeri. Non per Peyton Manning. Un giocatore che, per quanto controverso, è sempre stato prima un uomo ed un esempio. Con i suoi pregi ed i suoi errori. Certamente irripetibile, però.

Harrison- Peyton Manning

Luca Belli

Era il football. Almeno per quanto mi riguarda. Penso che sia il giocatore che meglio rappresenta il football da metà anni ’90 ad oggi. Ce ne sono stati tanti prima di lui e ancor di più ce ne saranno già da ora; però chiaramente lui È il football. Mi ricordo che ogni volta che i miei Packers giocavano contro di lui,sia ai tempi dei Colts che dei Broncos, ovunque si giocasse, rimaneva quella paura che potesse toglierti il coniglio dal cappello e vincere la partita.

Anche per lui ci sono state delusioni e la più grande penso sia stata l’essere scaricato da Indianapolis, la sua squadra. Fortunatamente per lui ha trovato i Broncos nel suo destino ed è riuscito a trovare l’anello che gli serviva per pareggiare i conti con il fratello. E poi ammettetelo,vedere una persona come lui, che a 40 anni gioca e vince un Superbowl, senza avere il fisico esplosivo che molti hanno ci ha fatto godere un po’ a tutti.

Dario Valente

Da tifoso dei Patriots e di tutte le principali squadre sportive di Boston, Peyton Manning è sempre stato il nemico pubblico numero 1. Come Kobe nel basket, Jeter nel baseball o i Canadiens nell’hockey, Manning era sempre l’avversario con cui misurarsi, l’ostacolo più importante da superare per raggiungere l’obiettivo agognato. Eppure la genuinità, l’incredibile etica del lavoro e l’insuperabile classe sia dentro che fuori dal campo lo hanno sempre reso impossibile da detestare. Con l’addio al football giocato se ne va sicuramente uno dei più grandi interpreti del ruolo di quarterback della storia, ma anche una delle rivalità più incredibili a cui io abbia avuto il piacere di assistere. La tensione e la passione che montavano nelle ore antecedenti alle partite erano imparagonabili a qualsiasi altra sfida e le aspettative non venivano quasi mai deluse.

La vittoria del Super Bowl dello scorso Febbraio è stata la perfetta ciliegina sulla torta di una carriera incredibile, fondata sia sul talento che sulla continua voglia di migliorarsi. D’ora in poi le sfide con i Broncos o con i Colts saranno più tristi, meno entusiasmanti e soprattutto meno emozionanti. Ora non resta che aspettare il 2021 per assistere al suo ingresso nella Hall of Fame, insieme al coetaneo e amico Charles Woodson. Due tra i più grandi se ne vanno e la NFL non sarà più la stessa: toccherà ora agli eredi (i vari Luck, Wilson, Mariota, Winston) provare a compensare questa perdita. Concludo con le parole dell’acerrimo rivale e amico Tom Brady: «Hai cambiato questo sport per sempre e reso chiunque intorno a te migliore. E’ stato un onore.

Dario Michielini

Mi dà fastidio spendere cento euro per una maglia che non metto mai. L’unica jersey NFL che ho è quella di Manning. Badate bene, il “fratello giusto” come dissi a Londra a uno sconosciuto che sulla banchina della metropolitana voleva raggiungere Wembley con addosso quella di Eli. La parabola gloriosa, perdente, leggendaria, immensamente deludente, elitaria, mediocre e foderata di record di Peyton mi sta bene, la metto tutti i giorni. E in settimana se le cose vanno male mi dico: “Fa niente, tanto domenica c’è il Brady-Manning!”

Quello non ci sarà più ed è questo sentimento che mancherà, più delle sue giocate. Non chiedetemi di cambiare vestito, chiedetemi di seguire cosa combinerà ora. Sono sicuro sarà altrettanto glorioso, perdente, leggendario, immensamente deludente, elitario, mediocre.

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Peyton Manning Broncos

Paolo Forneris

…lo confesso… allora ci avevo sperato… Quando, nel 2012, fu scaricato dai Colts, uno dei team che Peyton Manning visitò cercando una nuova casa dove proseguire la sua carriera, furono gli Arizona Cardinals che erano alla ricerca di un QB che ripetesse le gesta di Kurt Warner, e da buon tifoso dei Big Red mi augurai di vedere uno dei grandissimi del football terminare la carriera in maglia rosso cardinale… Ma lui scelse i Denver Broncos, probabilmente giustamente viste queste ultime annate, e questo sogno è definitivamente svanito martedì visto che il buon Peyton ha annunciato il suo ritiro.

In realtà stavolta il leggendario numero 18 non aveva scelta: paradossalmente l’ultimo anno, coronato dal secondo Superbowl vinto in carriera, è stato un calvario sia per lui, autore di una lunga serie di prestazioni decisamente deludenti e vittima di numerosi acciacchi, sia per noi, tifosi della NFL a 360°, che vedevamo una leggenda del football faticare in modo evidente ed impietoso. Nella Grande Lega, Manning è stato una rarità in un mondo pieno di rarità: in campo il prodotto dell’Università di Tennessee era una macchina da football quasi disumana, sempre con la situazione sotto controllo, almeno in apparenza, sempre a modificare gli schemi dati dall’alto e a far venire un principio di “esaurimento nervoso” ai compagni, che ad ogni snap dovevano sorbirsi valanghe di audible, anche se poi molte di queste scenette erano semplicemente delle finte. Allo stesso tempo però, quando i compagni sbagliavano, il massimo che Manning si concedeva era una “svedesissima” smorfia.

Alla fine dei drive offensivi, mentre magari altri suoi colleghi arringavano i compagni, lui si sedeva in panchina, pronto ad immagazzinare altri dati, altri schemi. Potete immaginare, soprattutto nell’ultima fase della carriera, anche la condizione psicologica di alcuni coach, più o meno suoi coetanei, che avevano a che fare con un giocatore che spesso conosceva le difese avversarie meglio dei difensori stessi. Da un tale robot ti aspetteresti un comportamento da automa anche fuori dal rettangolo verde, ed invece Manning è famoso per essere uomo dotato di notevole senso dello humour e spesso anche i suoi spot pubblicitari sono molto divertenti.

Il rapporto più difficile l’uomo che detiene quasi tutti i record più importanti della massima Lega di football per un QB ed ha vinto più gare di tutti i registi nella NFL insieme a Brett Favre, l’ha avuto con quello che è il premio massimo per una atleta NFL: il Super Bowl. Al Gran Ballo Peyton Manning è arrivato quattro volte, vincendolo in due occasioni. All’ultimo successo però, lo ha letteralmente trascinato di peso una difesa formidabile, mentre una delle due sconfitte, quella contro Seattle, è arrivata in modo quasi umiliante. Decisamente poco se si guarda al numero di vittorie dei vari Montana, Bradshaw, Brady, tutti con un poker di successi “sotto la cintura”, o anche di un Aikman che ha portato a casa tre anelli. E addirittura Peyton è stato dietro, in fatto di Lombardi Trophy, per anni anche al fratello Eli, sicuramente un buon QB ma non certo a livello del fratello maggiore.

Una difesa non all’altezza ha più volte tradito un Manning accusato dai suo detrattori di non riuscire a cambiare marcia nelle gare decisive. Quest’anno però c’è stata la consacrazione del Manning uomo squadra: per la prima volta dalla sua stagione rookie, il numero 18 in maglia Broncos ha lanciato più intercetti che TD pass ed è stato sostituito, complice anche un problema al piede, per alcune partite dalla sua riserva Osweiler. Con la consueta modestia, Manning ha capito che stavolta non spettava a lui il compito di trascinare la squadra, stavolta il suo ruolo sarebbe stato semplicemente quello di tenere la rotta, mentre la difesa propelleva il team verso il titolo. E anche per questo il nativo di New Orleans merita grandissimo rispetto.

Intendiamoci, neppure Peyton Manning è un santo: ancora all’Università del Tennessee fu protagonista di un brutto gesto ai danni di una dottoressa che lo stava esaminando per un problema al piede, vicenda più o meno insabbiata anche grazie alla notorietà del giocatore, e più di recente c’è l’accusa di Al Jazeera di aver fatto uso di sostanze proibite durante il recupero seguente alle delicatissime operazioni subite nel 2011. Su quest’ultimo episodio indagheranno gli organi competenti, più modestamente a noi “umani” farà un certo effetto non vedere più il numero 18 nelle statistiche della NFL e ci rimarrà il piacere di aver assistito, seppur magari solo via etere, alle gesta un immortale del nostro sport.

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Redazione

Abbiamo iniziato nel 1999 a scrivere di football americano: NFL, NCAA, campionati italiani, coppe europee, tornei continentali, interviste, foto, disegni e chi più ne ha più ne metta.

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