Le pulci con la tosse (ovvero gli intellettuali radical chic del football)

Contributo di Giacomo Giannecchini

Capita talvolta che, seppure non si occupi un posto di privilegio o si abbia a disposizione un importante balcone dal quale affacciarsi, si senta la necessità di prendere le distanze da qualcosa o da qualcuno. Modestamente, senza alcuna pretesa di assolvere ad un compito che vada al di là della scelta personale. Purtroppo quando si sente questa esigenza, a volte, ci si trova anche nella difficile posizione di prendere le distanze da amici, conoscenti o anche da persone per cui si prova stima.
Disgraziatamente per me questo è uno di quei casi.

Sento il peso di una scelta fortemente impopolare, ma è più forte la necessità di liberarmi da una serie di questioni che mi affliggono da tempo. La strategia migliore solitamente è quella di buttare fuori il problema e poi argomentare, vediamo se funziona: non tollero più gli “intellettuali radical chic” del football e tutti coloro che si considerano dei veri e propri apostoli, unici portatori della Sacra parola dell’American Football.
Non li reggo più. Se leggo ancora commenti arroganti su come bisogna tifare una squadra, o quali criteri utilizzare per valutare un giocatore, o qualunque altra sentenza sputata dalla stratosfera di “quelli che di football ne sanno”, credo che potrebbe scoppiarmi la testa.

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vince lombardiIl football è uno sport meraviglioso che oltre ad una grandissima preparazione atletica, necessita di grande conoscenza, di dedizione completa, di studio… Ma l’arroganza è un atteggiamento che nemmeno Vince Lombardi si sarebbe potuto permettere ed infatti non l’adottò mai.
Nel football tutto si rimette in discussione ad ogni “snap”: risultato, carriera, capacità, futuro, contratti… tutto è rimesso continuamente sulla linea di scrimmage. Ad ogni “snap”.
Non è un terreno adatto per coltivare l’arroganza o la supponenza nemmeno per i protagonisti di questo sport, figuriamoci per gli appassionati che vivono questo sport ad un oceano di distanza!

Qui in Italia, ai nostri giorni, si riesce a seguire il football con una relativa facilità viste le diverse testate giornalistiche in italiano (alcune ottime), che seguono molto da vicino il mondo della palla ovale. Un tempo non era così facile, ma ad oggi godiamo di questa fortuna. Ma può esistere una fortuna piena, senza lati negativi? Parrebbe di no.

Il gruppo di “specialisti” italiani del settore, parliamo di semplici appassionati che hanno investito molto tempo a “studiare”, spesso in inglese, schemi, regolamenti, transazioni e quant’altro, dopo essersi autoproclamati analisti, hanno cominciato a mostrare una corrucciata aria da snob. Scorrendo le riviste online ed offline è sempre più frequente imbattersi in affermazioni che contengono concetti come “dobbiamo portare il verbo del football nelle case degli italiani”, oppure intere colonne di accuse contro i neofiti che non studiano abbastanza,  calunnie verso tifosi poco fedeli, sorrisini di compassione per chi dimostra di non conoscere a fondo gli schemi base, sguardi scandalizzati per chi viene scoperto a digiuno di statistiche stagionali…

Ma davvero qualcuno si può permettere tutto ciò? Credo che nemmeno Bill Belichick potrebbe permettersi un atteggiamento simile, ma, a maggior ragione, qui in Italia davvero qualcuno può permettersi questi atteggiamenti arroganti?
pugni-sul-tavoloA seguire il football siamo in pochi, una nicchia appassionatissima ma pur sempre nicchia, ed è facile emergere per capacità in gruppi così ristretti, ma si può davvero usare la propria limitata conoscenza da footballaro da divano e tastiera per atteggiarsi a profeti?

Invece di condividere la propria conoscenza di questo meraviglioso sport, con tutti, in modo da diffondere ed al contempo imparare, vedo sempre più battaglie di ego smisurati che sbattono i pugni sui tavoli additando gli incapaci, i poco attenti, i tifosi della domenica… gli impuri.

Io non voglio diventare così.

Preferisco rimanere molto ignorante in materia di football anziché diventare un esibizionista da tastiera, un leone da baretto dello sport telematico.

Il guaio è a monte: le persone preferiscono sé stesse alla loro passione. “Il football è bello, ma il mio parere è anche meglio”, è questo il pensiero dietro alle azioni di questi infelici. Sono pochi nel nostro Paese quelli che sono nati in una famiglia appassionata di football americano, siamo quasi tutti autodidatti, ed internet, specie con l’arrivo dei social, è uno strumento fantastico per migliorare la nostra comprensione delle sfumature di questo sport.
Ma anche qui, tra i click e i tag vigono le stesse regole sociali del mondo analogico: l’individuo tende ad usare la propria conoscenza come una clava, per fare emergere sé a discapito degli altri.

“Questo sport è mio, e lo capisco solo io. Andate a vedere cosa ha fatto la Juve”; e costruiscono un bel recinto intorno a sé e ai propri adepti, all’interno del quale si passa il tempo ad autocelebrarsi e ad incensarsi l’uno con l’altro, mentre ci si difende dai diversi, dagli impuri. Atteggiamento molto maturo e propositivo, non v’è dubbio.
Come in ogni settore, si è creata anche qui un’elite, poco importa quanto piccola, che si è autoproclamata “elite” e si è assegnata lo scopo di proteggere il football. Ma non è il destino del football a preoccuparli, sono loro stessi e la “microposizione” che si sono riusciti a ritagliare quello che in realtà vogliono proteggere.

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Se il football diverrà popolare nel nostro Paese, loro vogliono essere i primi! Possono addurre svariati titoli per giustificare la loro arroganza: anni di esperienza da analista, passato da giocatore dilettante in Italia, età, corsi seguiti, letture fatte, numero di partite viste…
Direi che è giunto il momento di fare tutti un bel passo indietro, facciamo un bel respirone collettivo, e riprendiamo ad amare questo sport ricordandoci di quando noi più esperti cercavamo nozioni e spiegazioni in internet o nelle riviste specializzate in vendita nelle poche edicole che le tenevano.

packers fanRicordiamoci anche che abbiamo scelto la squadra per cui tifiamo non per una tradizione famigliare o perché siamo cittadini di  Detroit, di Denver, di Dallas, di San Francisco o di Kansas City. Abbiamo scelto la nostra squadra in base alla prima partita che abbiamo visto, o per i colori che preferiamo, o per l’eroe del gioco che maggiormente ha colpito il nostro immaginario, magari per la storia della franchigia, o per la voglia che conserviamo nel cuore di visitare proprio quella città, oppure perché ci siamo stati in quella città e da quel momento ci sentiamo legati a tutto quello che la rappresenta.
Non siamo stati investiti dallo Spirito Santo del Football che ci ha creato fan di una franchigia piuttosto che di un’altra. Ricordiamocelo, soprattutto quando giudichiamo il tifo altrui.

Riconosco in questi atteggiamenti un tratto profondamente, e dannatamente, italiano. Il tifo per noi è una religione, e viviamo gli scontri tra atleti come una questione secondaria rispetto allo scontro contro la fede altrui. Lo smacco tra tifosi è più importante della prestazione atletica.
Vedremo presto dei capi ultrà dei Jaguars? Speriamo di no. A noi italiani piace usare la conoscenza per umiliare, per ferire, non per includere, per aiutare o per migliorare noi stessi e gli altri. Men che meno per un semplice desiderio di condivisione.
Leggere critiche fratricide, arroganti e supponenti all’interno di un gruppo minuscolo come quello degli appassionati di football nello Stivale, è davvero deprimente.

In questo Paese anche le pulci hanno la tosse.

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Redazione

Abbiamo iniziato nel 1999 a scrivere di football americano: NFL, NCAA, campionati italiani, coppe europee, tornei continentali, interviste, foto, disegni e chi più ne ha più ne metta.

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