[NFL] Super Bowl: dalla panchina dei Ravens

SB XLVIIRay Lewis alza il Vince Lombardi Trophy. Nella sua mano, oltre al trofeo, i volantini con la scritta “World Champions” e altre cose. Tira in ballo come sempre il Signore, ma le sue parole deludono chi si aspettava una riflessione memorabile delle sue, come quella dopo la vittoria con i Colts nel turno di Wild Card. Dice la parola “Baltimore” quelle due o tre volte in più del dovuto, poi il microfono passa ad altri.
La sorprendente inefficienza del linebacker è ben più che comprensibile: davanti agli occhi gli è passata una partita che i suoi hanno dominato, poi perso, poi vinto. Hanno commesso errori, fatto scelte coraggiose, avuto paura del buio. E questo sovraccarico di emozioni ha avuto effetto sulle parole del loquace prodotto di Miami, che un paio di ore prima avrebbe sciorinato uno dei saggi su come Dio abbia piani ben diversi da quelli degli uomini, e che invece si è ritrovato a blaterare qualcosa di ben poco graffiante.

Jacoby Jones
Jacoby Jones

Quando Jacoby Jones ha corso per 108 yard ed ha segnato i punti del 28 a 6 con due quarti da giocare, stracciando lo special team di San Francisco, sicuramente i Ravens hanno iniziato a pensare a cosa dire con la coppa in mano, o dove festeggiare dopo la partita. Quando lo stesso Jones ha ricevuto un passaggio profondo di Joe Flacco, si è rialzato e divorato due difensori per il 21 a 3 nel secondo quarto è nata la convinzione di potercela fare, e quando Colin Kaepernick ha iniziato a lanciare palloni impazziti ben lontani dalle mani dei suoi ricevitori, Ed Reed ha capitalizzato ed i suoi compagni hanno iniziato a sfregarsi le mani.
Ma poi il blackout, che ha lasciato i campioni della AFC a chiedersi chi diavolo avesse acceso la fantomatica lavatrice e avesse fermato così il loro incedere da invincibile armata.

I Ravens che escono dalle tenebre sono una squadra che forse per la prima volta in stagione sbaglia i placcaggi, una squadra che imprevedibilmente si siede sugli allori di un vantaggio abissale dimenticandosi, da entrambe le parti della palla, di quanto sia facile segnare tre touchdown per i 49ers.
Hanno rinunciato alla pressione sul QB avversario spaventati da quello che egli poteva creare con le sue gambe, sottovalutando il fatto che tira dei proiettili il novanta per cento delle volte. E quei colpi hanno impallato delle cornacchie spennate per tutto il secondo tempo, incapaci di segnare se non con il miracolo di Jones in apertura.
Quando l’acqua arriva alla gola, si sa, non si ragiona lucidamente. E così, dopo aver lasciato che Kapernick trovasse Randy Moss, Michael Crabtree e Vernon Davis come voleva, Baltimore ha iniziato a blitzare in red zone. Il prodotto di Nevada ha allora saltato tutti e segnato in proprio il touchdown del 31 a 29. Il terzo quarto orribile dei campioni della AFC li vede costantemente spalle al muro, senza mai uscire dalla loro metà campo, soffrire sulle corse e sui passaggi.

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Joe Flacco
Joe Flacco

E l’attacco ha fatto meglio? Proprio il contrario.
La macchina da touchdown del redivivo Jim Caldwell, offensive coordinator scritturato a pochi giorni dalla Post Season, si è inceppata per la troppa baldanza di quest’ultimo, che ha voluto chiudere la partita confidando sul braccio del suo quarterback ed ignorando che il cambiamento di morale certo non poteva garantire le stesse performance della prima frazione. I difensori di SF, schierati in una man-to-man molto meglio eseguita che nel primo tempo, hanno talvolta raddoppiato o in ogni caso anticipato i ricevitori in maglia bianca. Quando avanti di due mete nel terzo quarto di un SuperBowl non si pensa a correre o guadagnare sul corto si commette un errore. Come quelli che l’ex allenatore capo di Indianapolis commise nel suo SuperBowl, quello sulla panchina dei Colts. Una cocciutaggine tattica che ha voluto dire titolo per i Ravens ma che stava per costar loro il più grande rammarico della storia dell’NFL.
Non a caso la franchigia del Maryland ha ipotecato la vittoria con un drive, il suo penultimo drive offensivo, in cui hanno corso (o lanciato corto) in tutte le giocate, mangiando cinque minuti e mezzo sul cronometro.

Vi aspettavate incensassimo i nuovi campioni del Mondo, li trattassimo come la imprendibile squadra dei primi trenta minuti o come quella coraggiosa degli ultimi dieci. Vi aspettavate vi dicessimo cosa passava per la mente degli uomini di John Harbaugh quando Joe Flacco, su un terzo e dieci, aveva pescato Jacoby Jones in profondità, o quando Torrey Smith aveva ricevuto alla stessa maniera aggrazziata un altro passaggio difficile nel primo quarto, dando il via alla slavina di punti che ha sotterrato i Niners nei primi due periodi. Oppure quando Anquan Boldin ha dimostrato di avere delle mani di fata nel quarto quarto trattenendo un pallone impossibile con la mano di un difensore davanti alla faccia.

Ma le parole di Ray Lewis smarrite nella notte del SuperDome, i classici occhi a palla, la scarsa organizzazione nell’alzare il suo secondo titolo a tredici anni di distanza ci hanno fatti ricredere, ed impostare questo pezzo sui venti minuti cronometrati in cui i grandi Ravens, dopo aver demolito Andrew Luck, essere scampati a Peyton Manning ed aver trionfato su Tom Brady, si sono lasciati andare contro Colin Kapernick rimanendo ad una chiamata dubbia dall’essere rimontati.

Super Bowl XLVII - Baltimore Ravens v San Francisco 49ers
Morgan Cox

Se ne andrà Ray, così come Ed Reed che salperà verso altri lidi. Il postino busserà anche più di due volte a casa Flacco, riversando nell’atrio uno dei contratti più remunerativi nello sport mondiale mentre il front office farà quadradre i conti. Della nostalgia di questa situazione Baltimore ha avuto un assaggio proprio nella notte del SuperBowl, e quando i coriandoli, pesanti, sono atterrati sul campo di casa dei Saints gli sguardi si sono già fatti perplessi ripensando alla stagione appena conclusa.
A quel 6 a 3 contro i derelitti Kansas City Chiefs, a quel periodo in cui Ray Rice vedeva più la panchina del campo. Agli infortuni di Terrell Suggs e di Lewis, all’annuncio di quest’ultimo. Da questo fino al volto di John Harbaugh, teso in sala stampa nel post partita, quando deve incrociare gli occhi di sua madre e spiegare che ha sconfitto suo fratello ma che è maledettamente orgoglioso di lui, anche se si è quasi distrutto un polso per far presente agli arbitri che un holding lì andava chiamato.

A tutti i giocatori le cui partite sono finite anzitempo a causa dei placcaggi di Bernard Pollard e compari, di come essi siano stati vitali per ribadire che con Baltimore non si passa facilmente. Oltre la paura c’è una squadra imbattibile, prima di essa una truppa fragile come un agnellino.
Se il presente è il Vince Lombardi Trophy (meritatissimo, badate bene), il futuro è un immenso punto di domanda, consci che la stagione 2012/2013, mossasi sul filo dei sentimenti e delle reazioni, non si potrà mai più riproporre e rimarrà unica nella mente di chi l’ha vissuta e di chi vi ha assistito.
Nella notte più dolce è mancata la parola a Ray Lewis, aspettiamoci qualcosa di più quando sarà introdotto nella Hall of Fame.

Perchè per allora la paura del “blackout bowl” dovrebbe essere smaltita.

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Dario Michielini

Segue il football dagli anni 90, da quando era alle elementari. Poi ne ha scritto e parlato su molti mezzi. Non lo direste mai! "La vita è la brutta copia di una bella partita di football"

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