[NFL] La parabola dei Texans
La partita dello scorso giovedì doveva essere la chiusura di una storia tormentata e spesso sfortunata di una franchigia che da quando era stata fondata nel 2002, aveva subito molte sconfitte e aveva avuto ben poche soddisfazioni. Le prime ebbero subito inizio nel giorno 0 degli Houston Texans, quando al draft scelsero il quarterback David Carr, prodotto di Fresno State che sembrava il predestinato a guidare i suoi nei primi anni di NFL ed occupare un posto d’onore nella storia della squadra nel futuro. Così, nonostante una memorabile vittoria sui Cowboys quell’anno nella prima partita di stagione regolare, non fu.
Forse troppo debole il rookie per sorreggere un nome nato dal nulla, forse troppo poco talento in lui ed attorno a lui. Ed a questo i dirigenti di Houston hanno posto rimedio negli anni scorsi, basti pensare alle loro prime scelte: Brian Cushing, Andre Johnson, DeMeco Ryans, Mario Williams, Jason Babin. La trade che ha portato in rossoblu Matt Schaub, quest’anno la scelta dell’ottimo J.J. Watt.
Individualmente, la squadra che ora è di coach Kubiak non invidia nulla a nessuna delle altre. L’annoso problema nel backfield è stato risolto con Arian Foster, undrafted sottovalutato che invece si è confermato come uno dei giovani runningback più produttivi (se non il migliore in assoluto), che in coppia con Ben Tate impaurisce molte front row avversarie.
Il problema dei Texans sono stati sempre gli episodi però: si parte da una incredibile vittoria buttata alle ortiche contro i grandi Colts di due anni or sono, con il QB Sage Rosenfels a saltare in aria per un primo down rischiando varie ossa solo per vedere gli arbitri chiamargli uno spot ingeneroso, e si arriva agli infortuni che hanno sempre funestato le loro speranze.
Tra le sfortune, anche quella di aver trovato sulla propria strada un avversario più forte, proprio i Colts di Peyton Manning, la squadra più vincente degli anni 2000, che regolarmente asfaltava i texani nei due incontri annuali. Si usa il passato perchè sia quest’anno che quello passato una W è andata dalla parte di Houston. E se quella targata 2010 illudeva di un cambio della guardia in testa alla division, quella 2011 ha illuso che i Texans potessero arrivare fino in fondo. Probabilmente così non sarà, ma i Playoff perlomeno se li sono meritati.
E molto del merito è di Wade Phillips, ex allenatore di Dallas che quest’anno ha portato la difesa dei Texans dal penultimo posto per efficienza difensiva al quinto. In pratica, una squadra che l’anno scorso perdeva le partite e rinunciava così alla post season a causa della sua difesa, soprattutto sui passaggi, quest’anno le vince grazie ad essa. Jonathan Joseph, defensive back ex-Bengals, va al Pro Bowl dopo la stagione della consacrazione, ma è solo la punta di un iceberg che ha anche in tanti altri armi sofisticate. Basti pensare a Connor Barwin, linebacker esterno, o ai già citati Cushing e Watt, cambiati o, come nel caso del secondo, “creati” da un settore che funziona come pochi in NFL.
Sotto queste premesse è arrivato il titolo divisionale. Di quanto però rimanga fragile la squadra del proprietario Bob McNair ci dicono abbondantemente gli infortuni. Prima le settimane di stop per Andre Johnson, uno dei migliori receiver della lega, poi gli infortuni a Matt Schaub, stagione finita, ed a Matt Leinart, suo vice, che hanno costretto Kubiak a schierare T. J. Yates, rookie di belle speranze uscito alla grande dal training camp ma che chiaramente nelle ultime settimane ha contribuito alla caduta nelle prestazioni dei texani. E così da unica squadra con difesa ed attacco nei top 10 della lega, si sono trasformati in un team che segna a stento e che si regge sulla difesa, che per quanto fenomenale non può stare sul campo per ore ogni partita. è l’ennesimo “down” di una parabola inverosimile per un gruppo che in questi anni ha visto di tutto ma che sembra, almeno tecnicamente, sull’orlo di diventare una stabile forza all’interno della AFC.
Che la division quest’anno fosse la più debole della lega è ovvio tanto quanto i progressi della squadra, e d’altra parte siamo convinti che l’obiettivo ultimo non sia quello di vincere un anello, quanto quello di trovare una dimensione tale da poter firmare free agent importanti, da portare gente entusiasta allo stadio, da essere una coordinata geografica important all’interno dell’ambiente NFL. In quest’ottica, i Texans sono ora una squadra perfetta: giovani ma maturi, ben allenati, con una dirigenza che assume sempre più credito dopo un inizio disastroso.
E se il futuro sarà sicuramente brillante, quello che preoccupa è il presente: è bastato che Reggie Wayne scuotesse il suo inetto quarterback per dare alla peggior squadra della lega, quei stessi Colts abituati a piegare costantemente Houston, la chance di battere una delle più forti, che nella fattispecie puntava al bye al primo turno di Playoff. Che quest’anno, a Houston, si giocheranno, con la convinzione che non sarà l’ultima volta forte quanto quella che molta strada va ancora fatta.
Forse troppo debole il rookie per sorreggere un nome nato dal nulla, forse troppo poco talento in lui ed attorno a lui. Ed a questo i dirigenti di Houston hanno posto rimedio negli anni scorsi, basti pensare alle loro prime scelte: Brian Cushing, Andre Johnson, DeMeco Ryans, Mario Williams, Jason Babin. La trade che ha portato in rossoblu Matt Schaub, quest’anno la scelta dell’ottimo J.J. Watt.
Individualmente, la squadra che ora è di coach Kubiak non invidia nulla a nessuna delle altre. L’annoso problema nel backfield è stato risolto con Arian Foster, undrafted sottovalutato che invece si è confermato come uno dei giovani runningback più produttivi (se non il migliore in assoluto), che in coppia con Ben Tate impaurisce molte front row avversarie.
Il problema dei Texans sono stati sempre gli episodi però: si parte da una incredibile vittoria buttata alle ortiche contro i grandi Colts di due anni or sono, con il QB Sage Rosenfels a saltare in aria per un primo down rischiando varie ossa solo per vedere gli arbitri chiamargli uno spot ingeneroso, e si arriva agli infortuni che hanno sempre funestato le loro speranze.
Tra le sfortune, anche quella di aver trovato sulla propria strada un avversario più forte, proprio i Colts di Peyton Manning, la squadra più vincente degli anni 2000, che regolarmente asfaltava i texani nei due incontri annuali. Si usa il passato perchè sia quest’anno che quello passato una W è andata dalla parte di Houston. E se quella targata 2010 illudeva di un cambio della guardia in testa alla division, quella 2011 ha illuso che i Texans potessero arrivare fino in fondo. Probabilmente così non sarà, ma i Playoff perlomeno se li sono meritati.
E molto del merito è di Wade Phillips, ex allenatore di Dallas che quest’anno ha portato la difesa dei Texans dal penultimo posto per efficienza difensiva al quinto. In pratica, una squadra che l’anno scorso perdeva le partite e rinunciava così alla post season a causa della sua difesa, soprattutto sui passaggi, quest’anno le vince grazie ad essa. Jonathan Joseph, defensive back ex-Bengals, va al Pro Bowl dopo la stagione della consacrazione, ma è solo la punta di un iceberg che ha anche in tanti altri armi sofisticate. Basti pensare a Connor Barwin, linebacker esterno, o ai già citati Cushing e Watt, cambiati o, come nel caso del secondo, “creati” da un settore che funziona come pochi in NFL.
Sotto queste premesse è arrivato il titolo divisionale. Di quanto però rimanga fragile la squadra del proprietario Bob McNair ci dicono abbondantemente gli infortuni. Prima le settimane di stop per Andre Johnson, uno dei migliori receiver della lega, poi gli infortuni a Matt Schaub, stagione finita, ed a Matt Leinart, suo vice, che hanno costretto Kubiak a schierare T. J. Yates, rookie di belle speranze uscito alla grande dal training camp ma che chiaramente nelle ultime settimane ha contribuito alla caduta nelle prestazioni dei texani. E così da unica squadra con difesa ed attacco nei top 10 della lega, si sono trasformati in un team che segna a stento e che si regge sulla difesa, che per quanto fenomenale non può stare sul campo per ore ogni partita. è l’ennesimo “down” di una parabola inverosimile per un gruppo che in questi anni ha visto di tutto ma che sembra, almeno tecnicamente, sull’orlo di diventare una stabile forza all’interno della AFC.
Che la division quest’anno fosse la più debole della lega è ovvio tanto quanto i progressi della squadra, e d’altra parte siamo convinti che l’obiettivo ultimo non sia quello di vincere un anello, quanto quello di trovare una dimensione tale da poter firmare free agent importanti, da portare gente entusiasta allo stadio, da essere una coordinata geografica important all’interno dell’ambiente NFL. In quest’ottica, i Texans sono ora una squadra perfetta: giovani ma maturi, ben allenati, con una dirigenza che assume sempre più credito dopo un inizio disastroso.
E se il futuro sarà sicuramente brillante, quello che preoccupa è il presente: è bastato che Reggie Wayne scuotesse il suo inetto quarterback per dare alla peggior squadra della lega, quei stessi Colts abituati a piegare costantemente Houston, la chance di battere una delle più forti, che nella fattispecie puntava al bye al primo turno di Playoff. Che quest’anno, a Houston, si giocheranno, con la convinzione che non sarà l’ultima volta forte quanto quella che molta strada va ancora fatta.