[NFL] Drew Brees e il record di Dan Marino
305 yards, in pratica la lunghezza di tre campi da football messi uno in fila all’altro. Questa è la distanza, da coprire naturalmente a suon di passaggi completati, che a due turni dal termine della regular season, separa il quarterback dei New Orleans Saints Drew Brees dal battere uno dei record più ambiti della NFL che resiste ormai da 27 anni: quello del maggior numero di yards lanciate in una stagione, stabilito dal mitico Dan Marino che nel 1984 con i Dolphins passò per 5084 yards.
Quasi due anni dopo aver trascinato la franchigia di New Orleans a vincere il primo Superbowl della sua storia, Brees è dunque vicinissimo ad un nuovo, prestigioso traguardo di un brillante cammino che l’uomo da Austin dal fisico assolutamente normale (è alto “appena” un metro e ottantatre in una NFL in cui ormai anche i quarterback sembrano dei defensive end) ha costruito grazie ad una volontà di ferro, ad una incrollabile fede in Dio e alla sua attitudine positiva. Tutte caratteristiche che lo hanno portato a “rinascere” dopo aver seriamente rischiato di terminare anzitempo la sua carriera sportiva.
Consentitemi di fare un piccolo passo indietro: e’ il 31 dicembre del 2005, i San Diego Chargers guidati in cabina di regia proprio da Brees, affrontano in casa in un match ormai per loro ininfluente, i Denver Broncos. Per i californiani la partita potrà anche non significare nulla ma per Brees non è così: l’allora ventiseienne ex stella di Purdue vuole a tutti i costi prolungare il contratto ed avere così la possibilità di finire la sua carriera con un team che però appena due anni prima ha scelto al primo giro nei draft il talentuoso quarterback Philip Rivers.
Sul finire del primo tempo i Chargers sono in attacco ma vicini alla loro end zone, e su un terzo down Brees viene toccato duro dalla safety dei Broncos Lynch e perde la palla. Durante la mischia che si accende per il recupero dell’ovale che danza pericolosamente a pochi metri dalla linea di meta, Brees fa quello che un quarterback non dovrebbe mai fare quando ci sono una dozzina di uomini pesanti in media oltre 130 chili che lottano per un pallone: cerca di recuperarlo lui stesso, con l’unico effetto che il tackle dei Broncos Gerard Warren si abbatte con tutti i suoi 147 chili sulla sua spalla.
L’impatto è devastante e quando Drew si rialza si accorge che il braccio è piegato ad L in modo assolutamente innaturale. Rientrato negli spogliatoi per il controllo, Brees si rende conto subito della gravità dell’infortunio alla spalla del braccio con cui lancia, e dopo le analisi, i medici confermano la peggiore delle ipotesi: lussazione della spalla con fuoriuscita dei legamenti dalla loro posizione e interessamento delle cuffie dei rotatori. In pratica non solo la stagione successiva è in pericolo ma la stessa carriera di Brees è un grosso punto interrogativo. Mentre i Chargers rassicurano Brees sulla loro volontà di rinnovargli il contratto, lui interpella il dottor Andrews, uno dei massimi chirurghi americani in fatto di ginocchia, spalle e gomiti e, cinque giorni dopo l’infortunio, il quarterback va sotto i ferri.
Nonostante la gravità delle lesioni, il dottor Andrews riesce con un mezzo miracolo ad aggiustare la spalla in artroscopia senza effettuare nessun taglio. La scommessa più grande per il giocatore è però sulla riabilitazione, e qui Brees dimostra tutta la sua formidabile determinazione: recupera per intero l’uso della spalla in otto settimane anziché dodici e ricomincia a lanciare in tre mesi invece dei quattro previsti. Quando però, forte anche della relazione assolutamente positiva stilata dal dottor Andrews sull’andamento del recupero dell’arto, l’agente di Brees inizia a negoziare il nuovo contratto con San Diego, arriva la brutta sorpresa: sì, i Chargers sono disposti a prolungare il rapporto di lavoro e gli offrono un contratto pluriennale, ma come quarterback di riserva. A questo punto Brees decide di affacciarsi sul mercato dei free agent, ma qui a causa dei dubbi che molti addetti ai lavori hanno sul pieno recupero della spalla, le squadre che lo cercano veramente sono solo due: New Orleans e Miami. Brees valuta la situazione e soppesando le alternative sulla carta non c’è partita: da un parte la qualità della vita di Miami, più una squadra che sembra pronta per decollare, un grande presidente, un brillante coach, Nick Saban, e una lunghissima tradizione vincente. Dall’altra c’è un team famoso soprattutto per la continuità nelle sconfitte, con un coaching staff nuovo di zecca tutto da testare ed una dirigenza che appare tutt’altro che affidabile. Inoltre anche la qualità della vita è tutta da vedere in una città che appena otto mesi prima è stata devastata dal più grande disastro naturale della storia americana, l’uragano Kathrina.
Drew decide comunque di far visita ad entrambe le squadre, e qui scopre che mentre i Saints per metterlo sotto contratto si accontentano del report positivo del dottor Andrews e vogliono costruire il loro attacco intorno a lui, i Dolphins lo sottopongono ad ulteriori lunghissime analisi, e quando Brees capisce dalle parole di coach Saban che i medici di Miami hanno forti dubbi sul suo recupero (errore del quale i Dolphins stanno tutt’ora pagando le conseguenze), prende la sua decisione e firma per i Santi e qui, contro ogni pronostico, la sua carriera non solo rinasce, ma si trasforma in qualcosa di formidabile.
Le sue statistiche dal 2006, l’anno cioè di esordio col team della Louisiana con Sean Payton come head coach, ad oggi sono infatti impressionanti: 2437 passaggi completati su 3596 tentati, cioè una percentuale del 67,8, per 27.698 yards con 192 touchdown e 209 completi per oltre 25 yards. E nello spazio di cinque anni Brees è il migliore della NFL in tutte queste categorie, oltre ad essere terzo come rating dietro altri due mostri di bravura come Tom Brady e Aaron Rodgers (e pensate che in questo lasso di tempo il secondo in fatto di yards lanciate è proprio il suo successore ai Chargers, cioè Rivers a quota 23.538).
Questi numeri spaventosi sono oltre a tutto ottenuti con una franchigia che prima del suo arrivo era stata spesso lo zimbello della Lega, cui oltre a tutto il quarterback col numero 9 sulla schiena ha regalato, come detto, anche un Superbowl. Ma Brees non è solo protagonista sul campo: impegnato a dare qualcosa in cambio ad una città non solo devastata da Kathrina, ma che lo ha accolto a braccia aperte credendo in lui nonostante al suo arrivo nel 2006 il suo rendimento post-operazione fosse tutto da dimostrare, Brees e la moglie Brittany si impegnano incessantemente per aiutare la comunità, recuperando fondi per la ricostruzione e creando la Brees Dream Foundation, una fondazione che raccoglie denaro per la ricerca contro i tumori e per aiutare i bimbi e le famiglie bisognose.
Siamo così al 2011, anno in cui Brees riesce a rendere ancora più “disumane” le sue statistiche già mostruose: su quattordici partite disputate, in nove occasioni completa oltre il 70% dei passaggi e undici volte va oltre le 300 yards, segnando 37 touchdown a fronte di appena 11 intercetti . Dunque, conti alla mano, con un quarterback che lancia in media 340 yards a partita, il record di Marino potrebbe cadere già lunedì notte, nella penultima gara di regular season che coincide per i Saints con la delicatissima sfida casalinga contro i Falcons. Intanto, naturalmente, sono già partite le dichiarazioni degli scettici che dicono che sì, battere il record è una grande impresa, ma che ai tempi di Marino il football era diverso, più fisico, che le regole sono cambiate e ora favoriscono il passing game e così via. Ora che in questi anni il football sia cambiato è indubbio: quest’anno sono addirittura quattro i registi che potrebbero andare oltre il record di Marino (e probabilmente anche Brady riuscirà nell’impresa) ma onestamente affermare che Brees sia favorito dal fatto che oggi ci sono regole che limitano la violenza nei contatti mi sembra un arrampicarsi sui vetri.
Vero, oggi si passa di più, ma sono ormai anni che la tendenza è questa e anche le difese hanno avuto modo di aggiustarsi, inoltre c’è il salary cap a rendere le cose più difficili. E comunque, indipendentemente dalla vostra fede “footballistica” e dall’appartenenza o meno al partito degli scettici, credo che nessun atleta meriti più di questo piccolo-grande texano lo storico traguardo.