[SB XLV] Dalla panchina dei Packers

sb45Come tradizione oramai quasi decennale, anche il Super Bowl XLV si è risolto all’ultimo drive, con la panchina gialloverde in apnea in attesa dell’ultimo, decisivo passaggio di Roethlisberger. Un quarto tentativo e cinque con cinquantasei secondi sul cronometro e poco meno di sette decine di yards di distanza dalla end zone. Per una volta non vediamo quella odiosissima difesa che, a dispetto del suo nome, “Prevent”, l’unica cosa che è capace di prevenire è la vittoria di chi la adotta. Un cornerback in bump, l’altro piu’ a distanza, i linebacker abbastanza attaccati alla linea di scrimmage a portare pressione, le safety a presidiare il profondo, che tanto il supporto alle corse non serve.
La palla lascia le mani del quarterback di Pittsburgh in maniera un po’ incerta. Non è certo la palla che ricevette Santonio Holmes in un angolo della end zone due anni fa per battere sul filo di lana i Cardinals nel Super Bowl XLIII. Tutti si aspettano che la palla vada verso le mani sicure di Hines Ward, ed invece si dirige verso Wallace, sul quale interviene Tremon Williams che smanaccia la palla che quasi cade tra le mani di Bush, backup dell’infortunato Charles Woodson ed autore di un intercetto in precedenza. Bush quasi riesce a ripetersi, ma questa volta non serve l’intercetto. Non importa se non la si trattiene. E’ incompleto. E’ l’incompleto che ti laurea campione del mondo, il miglior incompleto che ci possa essere.
packersLassù al nord, nella piccola cittadina del Wisconsin dove il numero di abitanti è inferiore al numero di soci “azionisti” dei Packers, si può iniziare a festeggiare il tredicesimo titolo NFL e la conquista del quarto “Vince Lombardi Trophy”, che mai come quando lo vince Green Bay si può dire che torni effettivamente “a casa”.
La TV inquadra Bart Starr, uno dei miti di questa franchigia, in piedi ad applaudire colui che raccoglie la sua eredità, tramandatagli da un’altra icona (ultimamente un po’ in disgrazia) che risponde al nome di Brett Favre. Nella serata che incorona i Packers campioni al termine di una stagione abbastanza travagliata, ad un certo punto della quale anche la qualificazione ai playoff pareva in pericolo, arriva il giusto tributo al protagonista indiscusso dei playoff, oltre che della finale: il quarterback Aaron Rodgers. Nemmeno Favre era riuscito nell’ìimpresa di incere il titolo ed essere l’MVP del Superbowl, riconoscimento andato ad un grandissimo Desmond Howard, che in quella partita non fece prigionieri.
E Rodgers torna indietro al 2005, quando disse al general manager Ted Thompson che lo aveva scelto al draft “Non la farò pentire di questa scelta”. Siamo sicuri che non se ne è pentito affatto, Thompson, e chissà se quella frase gli è tornata in mente quando ha visto Rodgers alzare il trofeo.
La vittoria dei Packers è stata sì merito di Rodgers, ma è giunta al termine di un percorso che sarebbe limitativo ridurre alla sola finale, che è stata più che altro il completamento di un insieme di fattori che hanno avuto il loro culmine nei playoff.
I grossi nomi fanno notizia, ma le azioni decisive arrivano anche dalle riserve e dai giocatori che solo i fan più accaniti sanno essere a roster. E’ il caso di Howard Green, arrivato a stagione in corso ed impiegato all’occorrenza, che ha colpito il braccio di Roethlisberger in packersmaniera decisiva per causare il primo intercetto della partita, quello che Collins ha riportato in touchdown piazzando il secondo colpo dell’unio-due con cui i Packers hanno tramortito gli Steelers alla fine del primo quarto. O ancora è il caso di Frank Zombo, un linebacker free agent, mai draftato, titolare per caso, autore dell’unico sack della partita sul quarterback degli Steelers, unico ma decisivo per costringere gli Steelers a tentare (e sbagliare) un field goal da 52 yards.
E cosa dire di Jordy Nelson, un talentuoso ricevitore al terzo anno capace di droppare palloni facilissimi ma anche di ricevere splendidi palloni per sei punti, come capitato nel primo quarto per aprire le marcature, o per portarli sulla linea delle due yards come capitato nel quarto periodo, subito dopo essersi mangiato una ricezione da fare ad occhi chiusi.
Mai perdere la calma, mai rimuginare sugli errori, lasciarsi tutto alle spalle e pensare solo al gioco successivo. Questo, in definitiva, l’approccio alla partita dei Packers. Una banalità, forse, ma una delle cose più difficili da mettere in pratica.
Da non dimenticare, infine, il discorso di incoraggiamento ai compagni fatto nell’intervallo da Charles Woodson, che si era appena fratturato la clavicola.
Woodson ha chiesto di parlare per spronare i compagni, ma l’emozione lo ha sopraffatto e non è riuscito a dire una sola parola, trattenendo a stento le lacrime. Tutti hanno capito ugualmente. Non c’è stato bisogno di parlare, e la risposta è arrivata sul campo.
 
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Massimo Foglio

Segue il football dal 1980 e non pensa nemmeno lontanamente a smettere di farlo. Che sia giocato, guardato, parlato o raccontato poco importa: non c'è mai abbastanza football per soddisfare la sua sete. Se poi parliamo di storia e statistiche, possiamo fare nottata. Siete avvertiti.

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