Il libro di Peyton Manning: il predestinato e il suo miglior nemico

Il 27 agosto 1998 Peyton Manning è già proprietà degli Indianapolis Colts ed è destinato a una carriera stellare che verrà narrata dai posteri. I contemporanei, però, non sanno ancora che il suo più acerrimo rivale (aggettivo sbagliato come vedremo) deve ancora giocare una partita da titolare a livello di college.
Quel giorno dell’estate ‘98 infatti passerà alla storia come quello in cui Lloyd Carr, coach di Michigan, darà la prima maglia da titolare a Tom Brady.

L’abbiamo già conosciuto in questa storia il ragazzo californiano, innanzitutto perché fu colui che venne scelto quando Manning rifiutò di essere un Wolverine, poi perché rappresenterà molte volte l’unico credibile ostacolo ai Colts e ai Vince Lombardi che il nativo di New Orleans crede di raggiungere nella sua prima parte di carriera.
Lloyd preferisce Brady perché ha più esperienza dell’ultimo arrivato Drew Henson (che avrà una carriera del tutto trascurabile anche in NFL), essendo al quarto anno di università.
Ma come al quarto anno di università? Come può uno che deve sgomitare anche solo per giocare una partita al college essere anche solo confrontabile con il numero 18, l’Euclide del football, rampollo di una grande famiglia e per i cui servigi qualunque squadra si straccerebbe le vesti?

Peyton Manning Tom Brady

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Ma se Peyton Manning e Tom Brady fossero identici, non ci saremmo divertiti così tanto quando si sono incrociati sul rettangolo verde. Essi sono il giorno e la notte, il bianco e il nero, l’ombra e la luce. Ma per giungere a questa conclusione bisogna anche considerare dove sono capitati, con chi e come la loro personalità si rifletta in campo.

Boston vs Indianapolis

La città di Boston ha 36 titoli nei quattro ‘major sports’. Quella di Indianapolis ne ha 1, ve l’abbiamo già raccontato, è quello sollevato da Peyton Manning nel febbraio 2007.
La seconda non è altro che un centro, per quanto importante, del Midwest americano. La prima è una delle principali metropoli dell’Est, vicina in molti sensi all’Europa, moderna, innovativa, interessante. Interessante anche e soprattutto dal punto di vista sportivo.
Negli anni 2000 Boston vive una rinascita sportiva senza precedenti. I big-three (Pierce, Garnett, Allen) portano i Celtics a un titolo NBA che mancava, ereticamente, da decenni. Ancora meglio fanno i Red Sox del baseball quando nel 2004 distruggono una maledizione lunga 86 anni per tornare sul trono del Mondo, successo poi perpetrato tre e nove anni dopo. I Bruins, in NHL, giungono all’eccellenza successivamente, quando nel 2011 il portiere Tim Thomas li trascina parando l’impossibile nei Playoff per un titolo che mancava da quarant’anni.

Nel 2000, al sesto giro, i New England Patriots scelgono Tom Brady. Sarà il loro modo di rilanciare a Boston il football, sport in cui la città del Massachussets ha vissuto solo qualche Super Bowl, perdendolo puntualmente. Sarà il lasciapassare per (quattro*) Super Bowl e il dominio sulla AFC East, sarà il mezzo per mettere la città di Boston tra i serafini che hanno vinto un titolo NFL. Con Bill Belichick, il suo unico allenatore per tutta la carriera, Brady conquisterà il Mondo, e tutta ha inizio al Gillette Stadium, casa dei Patriots, un giorno di settembre del 2001.

Il buongiorno si vede dal mattino

Gli Indianapolis Colts si presentano sul 2-0 quel 30 settembre al Gillette. Anche se l’era Manning è solo al terzo anno, i Colts di Jim Mora sono già una delle squadre più attese nella lega. Le due prime vittorie confermano che a Indy hanno una macchina offensiva potenzialmente stellare: i Jets vengono umiliati sotto 45 punti, i Bills sepolti dai 42 della seconda settimana. Mentre la NFL si sfrega le mani i tifosi dei nuovi Colts sperano che a febbraio 2002 possano già festeggiare il primo di almeno cinque Super Bowl.
Ma Brady sembra nato apposta per guastare la festa al numero 18. A pensare, venti o trent’anni dopo, che quella era la prima partita da titolare di Tom Brady vengono i brividi.
La settimana precedente infatti Drew Bledsoe, titolare dei Patriots, aveva rimediato una brutta botta al petto che lo avrebbe costretto alla tribuna per qualche tempo. Ty Law, prodotto di Michigan quanto Brady, si era avvicinato al rookie, del quale fungeva da chioccia, e aveva sentito queste parole: “No, Ty, io questo posto non lo mollo!”

La partita non inizia nemmeno. Peyton lancia due intercetti: uno per Law e uno per Otis Smith. Entrambi valgono 7, i Colts vanno sotto di 23 e contro lo stratega Belichick non può esserci rimonta. Finisce 44-13: Tom Brady 1, Peyton Manning 0. Tre settimane dopo 2-0 per il nativo di San Mateo, California.
Davanti a 73000 spettatori i patrioti solleveranno a febbraio il primo di tre Vince Lombardi in quattro anni. Il tutto mentre, ricorderete, a Indianapolis Peyton si sbarazza di Jim Mora.

Ma il vero ostacolo (i Patriots) tormenterà il numero 18 per tutta la sua carriera.

Patriots Team Brady

Gli opposti si attraggono

Fa sorridere, dopo tanti anni, la stima che Brady ha del collega:

“Per me è il più grande di ogni tempo. Ciò che ha ottenuto e il modo in cui studia, il modo in cui si prepara. [..] Sono stato fortunato ad averlo avuto intorno in molte occasioni […]; è un amico e qualcuno che guarderò e stimerò perché vuole sempre migliorare, non si accontenta mai di qualsiasi che non sia il meglio.” (dichiarazione del 2010)

Tre Super Bowl vinti contro uno solo (al tempo della dichiarazione sopra riportata), essenzialmente lo stesso QB rating, ma Tom vede ancora Peyton come una fonte di ispirazione. Non è mistero che ogni lunedì a casa Brady si riveda la partita di Manning del giorno prima, con il rivale che più volte l’ha battuto a prendere nota delle sue prodezze.

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Ecco, se entriamo in casa Brady però uscirne con un minimo di senso di inferiorità è inevitabile.
Sul divano infatti non c’è una come Ashley Manning. No, Tom non si è innamorato della figlia di un suo reclutatore, e diciamo che non ha avuto nemmeno molta fretta di mettere a posto la sua vita amorosa. Tra attrici e cheerleader Brady ha avuto una lunga lista di relazioni, per poi scegliere come un bambino in gelateria una delle modelle più pagate al Mondo, Giselle Bundchen, e sposarla. L’approccio alla vita dei due rivali non è passata inosservata tra le fitte maglie dei media e della pubblicità.

Peyton Manning Commerclal Wide
Se essere Peyton Manning è infatti l’aspirazione del ceto medio americano, essere Tom Brady ha un appeal ben più profondo al di qua dell’Oceano Atlantico e nelle metropoli.
In termini pubblicitari questo si traduce con Manning a fare spesso la parte dell’uomo comune, che è felice per una nuova polizza assicurativa o lavorando come impiegato o fattorino. Al suo dirimpettaio invece vengono riservati i cartelli della moda. Per capire la differenza mediatica tra i due è utile il trailer di un film del 2015.

Quando Mark Wahlberg sposta le lenzuola a casa Brady, un bagliore lo acceca.

Invece, sempre nel 2015, vediamo Peyton intento nelle sue commissioni domestiche e poi a chiedersi se davvero sia così brutto come il bobblehead nelle sue mani suggerisce.

Provate a mettere uno nei panni dell’altro. Impossibile, non funzionerebbe mai.

Uguali ma differenti

La differenza di formazione dei due è altrettanto lampante sul rettangolo di gioco. Tutta la gavetta che il numero 12 dei Patriots ha dovuto fare, prima a Michigan e poi da sottovalutata sesta scelta NFL, si è riflessa in un carattere indomabile, che ha permesso a Brady di perdere solo (51*) partite da quando è il titolare a Foxborough. Il cammino immacolato di Peyton Manning (famiglia, high school, college, prima assoluta) ha invece caricato di tensione una carriera che addirittura ha forse prodotto meno frutti del previsto a causa della pressione da sempre compagna del giocatore più atteso e popolare di sempre.
“La pressione è quella cosa che senti quando non sai che diavolo stai facendo!” è una delle più famose frasi del numero 18, e la perentorietà del tono è del tutto da ascrivere a quante volte egli sia stato questionato sull’argomento.

Il modo in cui i due interpretano quindi il ruolo più centrale del football non può avere alcuna parentela.
Incastonato in un sistema strategico ossessivo, Brady può fare anche a meno di tirare fuori dal cilindro lanci da 50 yard. Guardando le statistiche dei suoi migliori ricevitori, infatti, non stupisce trovare due slot receiver come Wes Welker e Julian Edelman. In tre differenti spazi temporali, Belichick e i suoi collaboratori (Charlie Weis e Josh McDaniels) hanno usato la Erhardt-Perkins Offense, filosofia che richiede agli attaccanti un’intelligenza fuori dal comune e al quarterback di colpire con solerzia quel giocatore che ha un vantaggio sul difensore assegnato. C’è meno spazio per errori e la possibilità di sfruttare maggiormente le doti atletiche di chi riceve.
Sfruttando invece l’altezza e il QI di Peyton Manning, gran parte del sistema di gioco di Tom Moore (suo offensive coordinator a Indy) si basa sul ricoprire di responsabilità la lettura dell’azione a priori, e agire di conseguenza. Questo porta a più spettacolo, a più errori, a qualche yard in più. Toglie molta responsabilità ai compagni, ne dà molta a Manning.
La velocità dell’attacco di New England è inerente al sistema stesso, quella dei Colts dipende da ciò che vede e in un istante analizza Peyton.

Il fratello ribelle

Detto questo, sembrava Brady potesse andare a par con l’amico-nemico (statisticamente parlando) nel 2007, quando in Massachussets arrivò Randy Moss. I Patriots vincono 18 gare consecutive, sono i primi a vincerne 16 di regular season e stabiliscono il record per touchdown lanciati e per punti segnati. Arrivano al Super Bowl numero 42 del 2008 con un pronostico favorevole.
I Colts sono fuori dalla sconfitta al divisional con i Chargers, ma Peyton, Archie, Cooper, Olivia e tutti i figli e nipoti hanno uno sky box dedicato a loro al University of Phoenix Stadium che ospita la tenzone.
Infatti in campo c’è Eli: il ragazzino che le prendeva dai fratelli più grandi di casa Manning, che faceva da sparring partner più che da ricevitore nel giardino di casa a New Orleans. È il titolare ai Giants: anche lui è stato una prima assoluta, ha eclissato il ricordo del padre a Ole Miss e adesso è in finale. Con lui, una difesa che infligge 7 sack a Tom Brady nella notte in cui, anche a causa di una serie di circostanze spiegabili unicamente con la locuzione “intervento divino”, i Patriots sono finalmente sconfitti.
Peyton si guarda intorno nel giubilo dei suoi parenti, applaude mantenendo la calma che gli si confà. Non sapremo mai cosa passa nella sua testa in quei momenti, ma lasciateci ipotizzare che un bel sospiro di sollievo abbia quantomeno fatto capolino.
“Menomale che Tom non ha vinto altrimenti chi li sentiva quelli!” dove con “quelli” intendiamo coloro che in una perfect season del numero 12 avrebbero visto una chiara supremazia per Brady nei confronti del rivale.

eli manning

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Nell’ambito della pratica poco coinvolgente dello stabilire chi sia il più grande di tutti i tempi (ammesso che tale definizione stia in piedi), la noia dei veri appassionati raggiunge vette insormontabili.
Ciò in qualsiasi sport, in qualsiasi manifestazione, in qualsiasi evento. Nel football moltiplicate questo senso di smarrimento per 100. Per quanto riguarda il ruolo di quarterback facciamo per 1000.
Chiunque tenti di stabilire chi sia il più grande quarterback di sempre, pecca di vanità. Non può perorare una causa giusta. Inevitabilmente, però, sembra gli venga dato ascolto ogni volta: è uno degli enormi controsensi dell’era dei social media.
L’errore di cercare chi è più grande tra Tom Brady, resistente, determinato, vincente, e Peyton Manning, talentuoso, diligente, appassionato, noi non lo faremo.

Ma era impossibile non raccontarvi del secondo senza che sapeste chi sia il primo.
Peyton vince il 41esimo Super Bowl perché finalmente riesce a superare Tom, ma nel suo cammino le insidie del periodo 2007-2011 non saranno solamente portate dai New England Patriots. Ci sarà un abbandono, un virtuale ritorno a casa e la prova più dura di tutte. Al prossimo capitolo.

(* dati aggiornati al febbraio 2016)

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Dario Michielini

Segue il football dagli anni 90, da quando era alle elementari. Poi ne ha scritto e parlato su molti mezzi. Non lo direste mai! "La vita è la brutta copia di una bella partita di football"

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